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ROCCA CORNETA
Ghiri e orsi tra le fronde

di Alessandra Biagi

Vallata Est del Corno alle Scale
Vallata Est del Corno alle Scale

E' uno dei paesi più antichi e ricchi di storia del Belvedere ma per chi si accinge a visitarlo sorge spontaneo domandarsi dove sia. In questo senso anche la burocrazia non ci aiuta identificando  come centro le poche casupole adiacenti alla chiesa e dando un altro nome, Ca' Giannone, a quelle immediatamente vicine poste lungo la  provinciale.  
Per il resto sono una miriade di piccoli borghi e di case sparse disseminate sul territorio posto  all'estremo lembo orientale del comune di Lizzano in Belvedere. 
Una caratteristica che deriva  sia dalla vocazione agricola di questa zona ancora oggi fortemente radicata nel tessuto sociale, sia dalla diffusione della proprietà terriera.  
Si dice, perché documenti in proposito non ce ne sono, che l'origine di questi luoghi sia antichissima. Scrive Luigi Ruggeri: 
"Piacque ad alcuni storici di dedurla da emigranti di Toscana, dopo la sottomissione dell'Etruria fatta da Fabio Massino l'anno 473 di Roma vollero altri che l'Appennino occidentale si popolasse di Frignanesi; e pretesero taluni che fosse invece abitata da esuli romani al tempo delle proscrizioni di Silla. Forse il vero sta di quelli che suppongono i fuoriusciti di Firenze e di Bologna avere popolato queste montagne nei primi secoli dopo le invasioni dei Barbari".  
La prima attestazione sicuramente datata che riguarda questo territorio è un lodo del 969 (giunto a noi in copie del XIV secolo), quando l'imperatore Ottone I stabilì i confini di tutta questa zona, per porre termine alle controversie che erano sorte in merito tra Bologna e Modena. 
Il primo documento certamente datato è un atto notarile del 1066 con il quale due coniugi, Uberto e Amelsinda, donavano tutti i beni che possedevano in questa zona al monastero di S. Pietro di Modena, così come una "bolla" di papa Eugenio III del 1148 confermava il possesso allo stesso monastero di molti beni in questa zona. In questo documento già era evidente la caratteristica della Rocca di essere una "corte", cioè un gran complesso di proprietà terriere riunite in un'unica unità economica e amministrativa, coltivata da coloni e da servi. 
Un fatto è certo che già nel 1117 Rocca Corneta fu sottoposta alla signoria di Stagnisino il quale pensò bene di cederla ai bolognesi che provvidero subito a fortificarla affidandola ad un  capitano. 
Con alterne vicende i cornetani restarono dipendenti  di Bologna   fino al 1513, epoca in cui Rocca Corneta fu ceduta in feudo alla famiglia Castelli e poi, nel 1798, definitivamente aggregata al comune di Belvedere. 
Il territorio ad essa afferente è molto vasto, comprendendo i monti della Riva quasi per intero, gran parte della Val Dardagna e, in origine, anche il Monte Belvedere e le sue pendici occidentali fino alla Querciola. 
Proprio sulla Riva, molti anni fa furono rinvenuti materiali ceramici riconducibili all'Età del Bronzo (circa 3500 anni fa), fatto che testimonia un popolamento antico già presente, anche se sporadico.  
Questa frammentarietà è visibile ancor oggi: in pratica, non esiste il "paese" di Rocca Corneta, come può dirsi invece per le altre frazioni, bensì tanti casolari sparsi sul territorio, facenti capo, oggi come nei tempi più antichi, alla chiesa.
La Chiesa di S. Martino: dedicata a San Martino, di cui si celebra la festa l'11 novembre. 
Questa data era considerata un po' il termine dell'anno, poiché in questo periodo si rinnovavano o si chiudevano i contratti agrari, si traslocava, si faceva compravendita d'animali, in particolare di grossi animali da lavoro come buoi, tori e vacche. 
Si pensa che da ciò sia nata la leggenda di S. Martino come patrono dei "cornuti". 
Una leggenda, appunto.
La chiesa parrocchiale di san Martino di Rocca Corneta vanta un'origine molto antica; la prima citazione nota è infatti in un documento del 1066, quando i coniugi Uberto e Amelsinda donarono al monastero di san Pietro di Modena i beni che qui possedevano. 
Nel 1148 una bolla di papa Eugenio III confermava privilegi e possessi al monastero in quest'area. Per la sua posizione a confine con il modenese, Rocca Corneta ha sempre gravitato maggiormente verso quella zona che non verso il Belvedere, sebbene per gran parte del XII secolo dipendesse per lo spirituale dalla pieve di Lizzano e per il resto da Modena.
La chiesa di Rocca Corneta per molti secoli ha costituito l'unica organizzazione unitaria e definita in questa zona, che per l'ampiezza dei suoi possedimenti non poteva definirsi "pagus" (podere) o "vicus" (villaggio) bensì "curtis" (tenuta), che apparteneva a varie e diverse entità: in parte all'Abbazia di Nonantola, in parte a proprietà private, in parte al monastero di san Pietro di Modena, che possedeva anche l'edificio della chiesa. 
Il fatto che Rocca Corneta fosse in qualche modo distaccata dalla pieve di Lizzano può essere attestato anche dal fatto che essa, contrariamente a tutte le altre chiese del territorio, possedeva il fonte battesimale, come risulta da una bolla di papa Urbano III del 1186. 
Una chiesa quindi importantissima, sorta forse da una cappella privata posta dai proprietari a servizio dell'intera "curtis", secondo una consuetudine piuttosto diffusa all'epoca. 
La "proprietà" della chiesa consentiva anche alla famiglia il giuspatronato, cioè il diritto di scegliere ed eleggere il parroco, che aveva quindi anche il diritto di amministrare i beni di pertinenza della cappella. Il giuspatronato sulla chiesa di Rocca Corneta da parte di famiglie della zona rimase in vigore fino alla fine del 1791, con la morte di don Giorgio Franzaroli, esponente di una nota famiglia del territorio, nominato per scrutinio dai capofamiglia del posto.
Anche la localizzazione della chiesa ai piedi del possente sperone roccioso su cui si trova la torre (unico resto del fortilizio fatto erigere qui dal senato bolognese nell'anno 1300) fa pensare a una sua origine castrense, dato che quello è un punto strategicamente importante dove forse sorgeva già un edificio o un complesso di edifici destinati alla difesa del territorio.
Con il declino del fortilizio, la torre fu poi riadattata a torre campanaria, che subì gravi danni nel corso della seconda guerra mondiale, data la posizione di estrema vicinanza alla linea del fronte dei monti della Riva.
Nel 1513 Rocca Corneta divenne libera contea, sotto il governo del conte Giangaleazzo Castelli; nel 1532 però tale privilegio fu revocato da papa Clemente VII, e Rocca Corneta tornò ad essere alle dipendenze della pieve di Lizzano; nel 1798 venne unita definitivamente al comune di Lizzano.
La chiesa attuale fu ricostruita su quella antica in occasione della peste del 1630, ma il suo aspetto oggi è dovuto a lavori che si sono susseguiti nel tempo: la sacrestia fu aggiunta all'inizio del XVIII secolo, il campanile, della prima metà del '800. Negli anni '80 del Novecento fu rifatto il pavimento e chiusa definitivamente la piccola cripta sottostante l'altare maggiore, per motivi di sicurezza. 
All'interno vi sono tre cappelle laterali, oltre all'altare maggiore. 
La prima a sinistra attualmente è chiusa e non utilizzata e in origine era dedicata a Gesù Morto e anche qui, come si è visto per Monteacuto delle Alpi, il Crocefisso è stato spostato sull'altare maggiore in epoca recente, togliendo la pala che raffigurava il Santo titolare. 
La seconda è dedicata a san Martino, titolare della chiesa, raffigurato in una statua posta entro una bella ancona di legno intagliato. 
Di fronte di trova la terza cappella detta della Madonna detta "della sagra", raffigurata da una bella statua degli anni 1630-1640. La statua si trova all'interno di una ricca ancona in legno intagliato e dorato, tutta la cappella è rivestita da un drappo di damasco rosso su cui sono stati appesi i numerosi ex voto che testimoniano la grandissima venerazione di cui è stata ed è oggetto questa Immagine. 
Negli anni '50 del Novecento fu al centro di un controverso e discusso episodio di lacrimazione, mai effettivamente provato e certificato dalle autorità ecclesiastiche, che per compiere le analisi del caso non esitarono a segare (sic) la testa della statua, per verificare la presenza all'interno di congegni che avessero potuto provocare la lacrimazione. 
Tra gli ex voto si potevano osservare, fino a pochi anni or sono, anche numerosi oggetti d'oro, attualmente custoditi, pare, in un caveau di una banca bolognese, con grande dispiacere degli abitanti della corte. 
Sebbene il titolare sia san Martino, ancor oggi ricordato con una bella festa nella domenica più vicina all'11 novembre, la Madonna della Sagra gode forse di maggiori attenzioni: una celebrazione solenne si tiene ancor oggi il 6 agosto, giorno della Madonna della Neve, con processione e Santa Messa. 
La definizione di "sagra" potrebbe far pensare all'accezione moderna di festa a prevalente carattere gastronomico, ma in realtà fa riferimento a un'antichissima pratica di consacrazione dei prodotti della terra presentati nello spazio antistante i templi, anch'esso consacrato, cioè "sagrato". Quindi la Madonna della Sagra è la Madonna della consacrazione di un altare o di uno spazio o di persistenti pratiche religiose.
Ai due lati della navata, addossati al muro, si trovano due grandi e pregevoli inginocchiatoi di legno datati al 1741, che recano anche le iniziali di don Pietro Maria Bernardini, che evidentemente li fece realizzare per la chiesa.
Sulla parete destra si trova una bellissima pala a olio su tela, datata al 1605, purtroppo in pessime condizioni di conservazione. La pala proviene dall'oratorio di Pédena, in origine di proprietà della famiglia Fiocchi. Raffigura la Madonna con Bambino che porge il rosario a san Domenico, rappresentato in abito domenicano secondo l'iconografia tipica; la tradizione afferma che la recita del Rosario si deve proprio a san Domenico, che ricevette dalla Vergine la corona del Rosario e la promessa di diffusione di tale forma di preghiera. 
Nel 1212 san Domenico, durante la sua permanenza a Tolosa secondo il racconto del beato Alano della Rupe ebbe una visione della Vergine Maria e la consegna del rosario, come richiesta ad una sua preghiera per combattere l'eresia albigese senza violenza. Da allora il rosario divenne la preghiera più diffusa per combattere le eresie e nel tempo una delle più tradizionali preghiere cattoliche.
Elemento particolare e peculiare di questo quadro è l'iscrizione entro cartiglio che esce dalla bocca della Vergine, che si rivolge a Giacinto chiamandolo "figlio", forse l'esponente della famiglia Fiocchi che commissionò l'opera. 
Intorno all'immagine centrale si sviluppa, e anche questa è una interessante peculiarità, una serie di quadretti che rappresentano vicende e miracoli della vita di san Domenico, molto venerato in tutta la provincia di Bologna, dove morì il 6 agosto 1221; fu canonizzato nel 1234.
All'esterno della chiesa si notano dei pilastrini votivi, detti "maestà", che rappresentano i misteri del Rosario e  testimoniano la devozione per la Madonna della Sagra, devozione alimentata in particolar modo da don Dante Chelli, ultimo parroco di Rocca Corneta, morto nel 1979. Sono stati eretti negli anni '60 del Novecento grazie a donazioni di privati, abitanti di Rocca Corneta anche emigrati all'estero, come risulta dalle targhette apposte sui pilastri.
Attualmente la chiesa versa in precarie condizioni di stabilità.
La Rocca: sullo sperone roccioso si vede la torre, ciò che rimane del fortilizio voluto qui dal Senato bolognese nell'anno 1300, per la difesa della Valle del Dardagna dai tentativi d'assalto dei modenesi. Questo fortilizio sorse per ultimo tra quelli del nostro territorio: Monteacuto e il castello sul Belvedere furono fondati, infatti, alla metà del '200. 
Il fortilizio fu assegnato dal Senato bolognese alla corporazione dei Beccai, che vi mantenevano un corpo di guardia formato da un capitano e da otto armati.
Nel corso dell'ultima guerra la rocca ebbe notevoli danni, riparati con i restauri degli anni '80 del Novecento. 
Ma se Rocca è il "paese che non c'è", quello che esiste attorno è una miriade di piccoli borghi pressoché intatti nelle loro strutture architettoniche anche se qui l'aspetto cambia completamente rispetto al restante territorio comunale ed al grigio dell'arenaria utilizzata nelle zone più alte si sostituisce il colore caldo, dalle mille sfumature di marrone,  tipico della pietra locale. 
Lo stesso avviene anche per i tetti che perdono il nero cupo delle piagne per virare verso al rosso dei coppi di terracotta realizzati direttamente nella zona. Un cambio di colore e di forme architettoniche determinato dalle differenti caratteristiche ambientali che separano quasi in due il territorio comunale.
Prà della Villa : E' poco sotto il borgo; presenta un edificio risalente al XV secolo ancora intatto nelle sue strutture originarie con un architrave datato 1569.
Camposalice: Borgo abbandonato; qui, in una stanzetta seminascosta sotto la stalla, esisteva  un bellissimo affresco naif raffigurante un tabernacolo con ai lati due persone in abiti religiosi. 
Palazzo: Vasto edificio  che la tradizione indica come sede della magistratura del comune di Rocca Corneta caratterizzato da una gronda di pietra arenaria scolpita unica della zona e da un portale finemente scolpito con simboli religiosi
Le Mógore, dove era visibile, fino a poco tempo fa, un grande e splendido edificio del XV secolo che presentava una finestra quattrocentesca con architrave monolitico a mensole cave.
Guardengo, un bel toponimo longobardo (VIII secolo) che significa "posto di guardia";
Pédena (1066), che secondo alcuni deve il suo nome al fatto che una donna, giunta non si sa da dove, decise di ricostruire una casa in questa zona, sconvolta da una tempesta, e giunse qui… a piedi. Questa località era sede di una famiglia molto importante, quella dei Fiocchi, che possedeva anche il grande podere di Campogaruglio. 
Qui si trovava un bell'oratorio dedicato alle Stimmate di S. Francesco, eretto all'inizio del '600 proprio dai Fiocchi, non più esistente.
Fiocchi: Oltre a quello di Pédena, il più bello era quello del borgo dei Fiocchi, databile alla metà del XVIII secolo ma posto in un bellissimo borgo cinquecentesco molto ben conservato. E' presente un oratorio del 1600 e  sull'architrave di una porta la data 1559.
Rovina:altro oratorio più recente, ma presto dismesso. 
Sempre in territorio cornetano ma più a monte si trovano gli oratori di: 
Ca'd'Julio (metà dell'800);
Ca' di Gianninoni (metà '700); 
Molino delle Macchie:  Posto  in splendida posizione sulla riva destra del Dardagna, ancora completo e pressoché intatto nelle sue strutture originare, sede un tempo della dogana che divideva Bologna da Modena.
Molte poi sono le "maestà" (edicole votive) sparse sul territorio, testimonianza di una fede semplice: gli esemplari più antichi risalgono all'inizio del XVIII secolo.
Tra le famiglie più antiche di Rocca Corneta, rinvenute nei registri d'archivio della Pieve di Lizzano, si citano qui i Castelli, i Taglioli, i Roda, i Bernardini.
La Piastra, documentato dal 1158; 
Le Sgadìcce (969); 
La Sorba (969); La Serra (1475);


Toponomastica

Il territorio che ci accingiamo a visitare questa volta ha una storia molto antica e molto ricca di eventi. 
Oggi la parrocchia di Rocca Corneta è quasi spopolata, ma un tempo questo luogo era talmente importante da diventare prima comune autonomo retto da un console nel 1197, poi contea e poi comune autonomo, dal 1532 al 1798, quando venne unito a quello di Lizzano. 
I documenti più antichi della sua storia risalgono al 969 e quasi tutte le località che lo compongono compaiono già nel '500 e parlo di "località" e non di paesi, perché questo territorio ha avuto sempre le caratteristiche di una "curtis", vale a dire un territorio costituito da piccoli insediamenti (a volte costituiti da un solo edificio) che facevano capo a un organismo centrale amministrativo, in questo caso la chiesa di San Martino. 
In passato (ma in un certo senso anche oggi) ha gravitato più verso il modenese che verso Lizzano, tanto che nel 1150 diversi terreni furono donati al monastero di San Pietro di Modena. 
È un territorio che ha sempre avuto una forte vocazione agricola, grazie all'ubertosità del terreno e all'esposizione favorevole, e questa vocazione è evidente nei toponimi: tanti sono i "campo di", "le vigne", "i ronchi" eccetera. 
Poiché il dialetto della Rocca è una variante della parlata emiliana ma non ha suoni particolari, pur essendo molto gradevole all'orecchio, ho preferito lasciare molti dei toponimi in italiano, a meno che non esprimessero una particolare caratteristica che il dialetto consentiva di cogliere meglio. 
Cominciamo il nostro cammino all'estremità nord della parrocchia della Rocca, che coincide con l'estremità nord del comune, dove c'è La Sòrba, in posizione leggermente dominante sulla campagna circostante: facile pensare alla presenza di un sorbo di notevoli dimensioni, tanto da dare il nome alla località, al femminile perché, come è noto, nel nostro dialetto ha conservato la declinazione al femminile degli alberi, come in latino. Un'altra ipotesi è che qui vivesse una "sòrba", cioè una strega guaritrice che poteva, all'occorrenza, trasformarsi in questa pianta. 
Nei pressi della Sòrba c'è un bosco di circa 17 ettari detto La Lana, che apparentemente è di significato trasparente, me che in realtà si presta ad almeno due interpretazioni: o c'erano in giro molte pecore (ma questo potrebbe valere per altri luoghi del nostro territorio) o è una contrazione di "landa", dal francese di origine celtica "lande", col significato di paese, terra. Chissà che le armate napoleoniche, del cui passaggio da queste parti abbiamo testimonianza negli archivi, abbiano lasciato traccia di sé anche nei nomi di luogo…
Nella Lana c'è anche il Campo della Lana, dove c'era una piccola sorgente che formava una pozza in cui si abbeverava il bestiame. 
Il vicino Sertón, una serra piuttosto vasta, non è molto francese: più che un luogo chiuso, recintato, come sembrerebbe suggerire la parola, data la morfologia del luogo pare derivazione dal latino "serra", sega, ad indicare un luogo rialzato che si allunga in linea retta, magari con un andamento un po' serpeggiante. 
Poi ci sono Le S'gadìcce, indicato come "Sgadìzze" nei confini del Belvedere tracciati ai tempi dell'imperatore Ottone nel 969. 
La "s'gadìccia", in dialetto, è la segatura del legno (dal latino "secare", tagliare) e può darsi che qui vi fossero molti boschi da tagliare; però, dato che significa anche dividere, spartire, attraversare e dato che da qui passava, come oggi, il confine con il modenese, chissà… Forse è un luogo che "divide" o che "si attraversa". 
Più sopra c'è Sàstio, in bellissima posizione a cavaliere della vallata sottostante, toponimo che non esiste in altri luoghi d'Italia. Si trova già citato in documenti antichi come "Molendinum de Sasclo", anche se a dire il vero qui siamo piuttosto distanti da un torrente e non sembra un posto per un mulino. L'unica spiegazione possibile è la continuazione del latino "exhaustium", col significato di "luogo svuotato" o "luogo sfruttato", riferito a un  bosco o a un uso intensivo della terra. Un'altra ipotesi è una derivazione dal latino "satio", seminagione, piantagione.  
A dimostrazione del fatto che i posti di confine erano sempre difficili da difendere, Sàstio compare in una mappa del '600 indicato come "Il Lago (?) Sàstio, dove si è posto un Kastello con quattro soldati e un capitano". Un corpo di guardia dalla stessa composizione era presente anche al Molinaccio, a Ca' Vigoni e a Valpiana.
Vicino al Dardagna c'è Il Molinaccio, che per gli abitanti del circondario è però Ca'd'Migliètt, un piccolo Emilio. Nelle mappe del Catasto Pontificio viene indicato come Molino Pédena-Diàmbri, ed è ricordato anche dal Calindri nel 1782. Fino al periodo tra le due guerre qui c'era un'osteria, punto di sosta dei viandanti e dei birociàij che facevano la spola portando merci dalla stazione ferroviaria di Porretta Terme a Fanano. A proposito dei Gdiàmbri, luogo di origine della famosa Oliva della leggenda del Belvedere, deve il suo nome ai gamberi di fiume.
Le Spiagge: il mare è troppo lontano, in tempo e spazio, per pensare a distese di sabbia bianca: è più probabile che derivi dal latino volgare "plagia", pendio, sorto dall'incrocio del latino "plaga", regione, col greco "plagios", fianco, lato. Il podere fino all'inizio del '900 non esisteva: fu creato, tagliando i boschi, da Enrico Vignali della Rocchetta, quando si stabilì qui dopo essere stato colono a Pédena. Lì nei pressi ci sono E'CampìnE'Camp'ed Pavlètt, un buffo Paoletto, e E'Biasciól, un piccolo campo che nel nome ricorda qualcosa di masticato, in dialetto "biascià".
Sempre salendo, dividendo il territorio a strisce nel senso della larghezza, troviamo Il Banciolìno, buffo toponimo che indica sia una casa che un fosso. In dialetto "banciolìn" (come diminutivo di banco, dal longobardo "bank", panca) indica un piccolo sgabello su cui posare i piedi, ma qui potrebbe indicare un piccolo banco di roccia affiorante e certo qui le pietre non mancano. 
Qui secondo la tradizione popolare c'era un convento che tra i suoi annessi aveva un edificio a pianta circolare, pianta ancora visibile nel dopoguerra. Se aggiungiamo che era un luogo dove "e's'ghe v'déva", gli elementi del mistero ci sono tutti. Non sarebbe l'unico toponimo riconducibile ai Longobardi (si veda oltre Guardengo): se fosse così, sarebbe un elemento per datare questo luogo ad almeno 1200 anni or sono. 
Sulla strada che dal Banciolìno va alle Spiagge, percorribile solo a piedi, c'era La Palazzina, una grande casa di cui però già negli anni '30 del Novecento erano visibili solo le fondamenta.
Dirigendosi verso est, in salita, si incontrano Le Bòrre, tra le tante presenti sul territorio belvederiano e più volte analizzate, e il castagneto della Bòrra (o Boràcia), sopra Franzarólo: questo bel toponimo, che quasi certamente ha originato anche il cognome Franzaroli, nei documenti più antichi è indicato come Fronzarolo, forse dal latino "fróndem", fronda, ramo frondoso, e ci può stare, perché prima della ceduazione selvaggia ad uso industriale (legname) e agricolo (per far posto ai pascoli e alle coltivazioni) nell'antichità c'erano tanti boschi. 
Più sopra c'è La Ca'Nóva, che in effetti è un edificio piuttosto recente, posto in una bella piana. 
Ancora oltre, al confine con il modenese, c'è Ca' del Lago, località indicata nella mappa del 1657 e così detta per la presenza di uno specchio d'acqua e perché qui nasce il Fosso della Fontana, che scende tra Franzaròlo e I Ghirri e all'altezza della Borra entra nel Fosso dei Sassóni, che va poi nel Dardagna. 
Negli anni '70 del Novecento a Ca' del Lago fu rinvenuto un ripostiglio votivo contenente statuette di bronzo a figura umana, forse pertinenti a un santuario o a un tempio antico (etrusco? gallico?). In un documento del 1227 Ca' del Lago è detta Serra del Lagomalo; per non farsi mancare niente, lì nei pressi ci sono Ca' del Sole e Il Monte.
Ridiscendiamo verso I Ghirri e lungo la strada troviamo due castagneti, La Bòrra e La Costa, perché posto in pendenza. I Ghirri è uno dei toponimi zoofoni del Belvedere, derivando quasi certamente dalla presenza abbondante di ghiri. 
Poi c'è La Serretta, un tempo un piccolo podere recintato, e nei pressi si trovano La Ca'de'Vent', casa del vento più nota come Ca' d'la Celsa (dal nome della proprietaria) e un buffo Le Tabìne, come La Tabina di Vergato. Non volendo pensare a malattie e putrescenze (dal latino "tabes", putrefazione, decomposizione), preferisco credere a un diminutivo contratto da "tab(ul)ina", col significato trasparente di tavola, asse o forse, per estensione, di terreno pianeggiante. 
Proseguendo in discesa si arriva a Montorso. La spiegazione più semplice che salta all'occhio è Monte dell'Orso o simili, anche se, secondo la tradizione popolare, il luogo deve il suo nome alla presenza qui, anticamente, di gente scorbutica e strana. Oggi non ci abita più nessuno. 
Poco oltre c'è Tra Le Vigne, uno dei tanti toponimi "enologici" della zona di Rocca Corneta, che aveva vigneti quasi ovunque. Una vigna c'era anche a I Mösc, che mi sentirei di tradurre come I Muschi, più che come mosche noiose. D'altra parte, trattandosi di vino potrebbe anche essere moscato, che forse mi ha dato un po' alla testa. Meglio non divagare.
Superiamo il Fosso dei Sassóni, attraversiamo i campi e arriviamo a Pédena, citata in un documento del 1066 come "Pédina", come dicono ancora i locali. Qui si trovava l'oratorio delle Stimmate di San Francesco, eretto all'inizio del '600 dalla famiglia Fiocchi che qui risiedeva, proprietaria di questo podere, molto rinomato per fertilità ed estensione. Il toponimo deriva forse dalla voce dialettale che significa "grangia", probabilmente sincopato da pédena, "zona al pie' del tessuto oppure del monte". In un documento del 1552 Pédena viene descritta come "vigna con cinghio cerrato con un moro e alcune more con pendise de castagni che cascano in la vigna", quindi un podere ricco di essenze arboricole cerro, gelso, castagno). L'ipotesi fantasiosa, molto più interessante, narra di una grande tempesta che sconvolse e distrusse tutto il territorio della Rocca in tempi antichi, radendo al suolo tutte le case e uccidendo tutte le persone: un giorno una donna, proveniente non si sa da dove, arrivò a piedi in questo luogo, dove decise di stabilirsi e che chiamò Pédina perché… ci era arrivata a piedi! 
A piedi si fa presto ad arrivare al Casino, dove non ci vedrei niente di equivoco, bensì un casino di caccia di qualche possidente locale o del Conte Galeazzo Castelli in persona. Dal Casino c'è un sentiero che scende al Mulino delle Macchie, intese come boschi, macchie di vegetazione; fu costruito nell'anno 1800 come sostituto del Molino Vecchio di Trignano, ed era uno dei meglio attrezzati, con annessa una piccola officina che funzionava con l'energia elettrica lì prodotta. Si ferravano anche buoi, cavalli e vacche da lavoro. Poco sopra c'è E'Campiaciól, un piccolo castagneto con casóne.
Risaliamo al Ponte di Catèllo, sovrastato dai Cingi, da intendersi come cengia, sottile crinale. Quanto al ponte, si può pensare a una banale derivazione dal nome proprio Locatello, presente anche se poco diffuso nel Medioevo, o a una più poetica, dal latino tardo "catellus", diminutivo di "catulus", cagnolino o cucciolo di altri animali; a me piace molto di più la seconda ipotesi, ma penso che sia più logica la prima.
Continuiamo verso Le Miarìne, di cui si dirà, e incontriamo I Paolìn, detto più tardi Ca'd'Varìsto (Fiocchi): certo, può darsi che vi abitassero due Paoli mingherlini, ma dato che "paolo" è anche il nome di una moneta, coniata da Papa Paolo III alla metà del '500 e rimasta in uso piuttosto a lungo, non si potrebbe pensare a una somma pagata in "paolini" per l'acquisto del podere? Io non sono mai stata brava coi soldi, per cui è meglio proseguire. 
Le Miarìne sono citate anche dal Calindri, che afferma che nel 1782 ci abitavano 7 famiglie; il luogo però è più antico, citato nei documenti dell'archivio parrocchiale. Il nome deriva da miglio, come contrazione di Mi(gli)arìne: forse qui c'erano coltivazioni di questa graminacea, i cui semi sono usati come becchime per gli uccelli. 
Lì nei pressi c'è il Campo della Tigna, forse dal latino "tinea", tarlo, tarma, pidocchio; se prima siamo fuggiti dalle putrescenze, adesso non c'è scampo: la tigna è una malattia della pelle dovuta a un fungo parassita e caratterizzata da croste e prurito. Forse nell'antichità il campo veniva usato per isolare i malati, anche se è decisamente più probabile che la malattia riguardasse le piante, in particolare la canapa e la vite.
Saliamo ancora. La vasta frana tra Le Miarine e I Fiocchi è L'Arvìna (anche questa una delle tantissime), la frana per eccellenza, affiancata da un campo che è detto Agl'Arvìn, la frane al plurale chissà perché. La frana ha fatto cadere Ca'd'Pierin, edificata in un luogo detto Ordolàgo, secondo i locali "orto del lago": in effetti il "lago" (un piccolo stagno) c'è ancora, l'orto non più. Si dice che fosse stato impiantato da un prete che lì viveva in tempi antichi: data l'abbondanza di acqua, non aveva problemi di irrigazione.
Più avanti c'è La Ca' (detta dai locali La Ca' di Rocca), la casa per eccellenza, un grande e bel fabbricato già esistente a metà '600, citato da Calindri. 
Giungiamo poi ai Fiocchi, che forse ha originato il cognome ancora ben presente e diffuso in tutto il Belvedere. C'è un bellissimo edificio datato 1559 (secolo a cui risalgono tutti i fabbricati del borgo) e un oratorio del XVIII secolo dedicato all'Annunciazione. Il prato più vicino alle case è E' Pra', poi lì intorno ci sono Il Poggio, dove c'era una casa che fu distrutta durante l'ultima guerra; una serie di castagneti: La Tana del TassoDietro alle Macchie (bosco); il Castagneto dei Pradàcci (i proprietari erano dei Pradacci, presso La Querciola); Le Casacce, un bel castagneto in piano sopra ai Fiocchi, dove forse un tempo c'erano degli edifici, magari un po' malmessi; un grazioso La Seivètta, la Selvetta e, finendo il giro, a confine con l'Arvìna, c'è un enigmatico Al Sòrs, al plurale: le Sorti? I Sorsi? Le Sorgenti? Così com'è pronunciato sembrerebbe proprio derivare dal latino "sors, sortis", che ha quali significati primari sorte, destino, profezia. Ma vuol dire anche lotto, parte di terreno, che forse è il significato più corretto.
Usciamo dall'arcano. Appena sopra Le Sorti c'è Il Pianello, seguito dalla Coda, un castagneto lungo e stretto che arriva fino a Valpiana; poi I Gròtti e un grazioso La B'giolìna, La Baggiolina, il castagneto della Palmina dei Fiocchi: sembra che oltre alle castagne ci fossero anche i mirtilli ("bàggioli" in dialetto). 
Poi i campi della PianaCampolungo (citato negli Estimi del 1475); I Campi Sodi, cioè non lavorati. Appena sotto Valpiana c'è un piccolo E'Busètt, Il Buchetto, un castagneto in un avallamento; un po' più spostato verso La Corona c'era il castagneto detto Al Poivrìn, dove oggi invece si seminano patate; il nome, al plurale, sarebbe da tradurre con un buffo Le Polverine, che però in un documento del 1552 è citato al singolare, cosa che spiega meglio il significato del toponimo, che indica un luogo polveroso.
Da Valpiana scendiamo al Marne': questo bel toponimo è forse da riferire alla presenza di affioramenti di argille marnose, cioè ricche di marna, roccia grigio-giallastra formata da calcare e argilla. Marna deriva dal francese "marne", alterazione del latino volgare "margila", voce gallica. Un tempo vigeva la pratica, ove necessario, del marnare, cioè aggiungere marna a terreni agrari a scopo correttivo. Chissà se lo facevano anche qui… 
Poco sotto ci sono La Canala e I Sassóni e, sulla strada, Pra' di Polla, un castagneto di quelli della Polla: è curioso notare come il nome della località abbia identificato gli abitanti, secondo un processo già noto sul nostro territorio (Camprenna, La Casella). 
A proposito della Polla, già vista nel capitolo sulla Querciola, nei Rogiti Serantoni del 1565 è detta "Polla dei Ghirardi o Castagnedèllo", a rimarcare l'importanza e la ricchezza di una famiglia diffusa in tutto il Belvedere; lì vicino c'è San Martino, protettore e patrono della Rocca, che qui dà il nome a un insediamento rurale con fabbricati molto antichi.
Dal Marne' scende il Fosso della Serra, che ha preso nome dal borgo omonimo, presente già negli Estimi del 1475; deriva il suo nome da un podere recintato, serrato. Lì intorno ci sono: BellavistaI BoschiLa CasellinaPra' della VignaLa Piana; un bellissimo Le Prunàre, luogo ricco di pruni, arbusti selvatici spinosi, o di prugne, dato che "pruna" è la variante antica per indicare il frutto. Poi c'è uno strano La Velzàra, pronunciato con  la "e" chiusa, per il quale ho pensato a una variante fonetica, peraltro piuttosto usata nell'italiano antico, di "felzàra", luogo ricco di felci.
Scendendo ancora si arriva al magnifico podere di Campogaruglio, Campo del Gheriglio, secondo l'ipotesi corrente. L'antica e grande casa del 1753 era munita di tutti gli edifici accessori, tra i quali una grande stalla  porticata che fu incendiata dalle truppe  tedesche nel 1944, nel corso di un rastrellamento. 
Più sotto, dall'altra parte della strada, c'è Ca'd'Riccio, per la quale si è pensato ai ricci, i graziosi animaletti spinosi, ma non è Ca' dei Ricci o del Riccio bensì "Casa di Riccio", nome d'uomo non comune ma noto anche sul nostro territorio fino alla metà del '600 e riferito, pare, alla capigliatura o anche a un carattere un po'… spinoso. Anche il cognome Riccioni ha questa origine, dal patronimico. 
Da Ca'd' Riccio risaliamo fino a Ca'd'Chèc, casa di Checco (Francesco), com'è più nota Casa Vigoni: nella più volte citata mappa del 1657 è indicata come Ca'Vigone, casa di un grosso Vigo (Ludovico in dialetto).
Ancora salendo si trovano I Taijô, I Taglioli: di nuovo il caso di un luogo che ha originato un cognome (o il contrario?). I Taglioli sono già citati nei Rogiti Serantoni del 1564: un'ipotesi di Luciano Lanzi di Farne' è che il nome della località sia da far risalire ai rametti delle viti che rimangono dopo la potatura. Data la buona esposizione della zona, è molto probabile che vi fossero vigneti, anche  piuttosto estesi. C'è invece chi pensa alle tagliole per la cattura degli animali, magari con un bel bocconcino di cibo ("tagliòlo" in toscano antico).
Lasciamo stare le trappole e saliamo ai Fantétti: la casa che si vede oggi fu costruita da Tonino Fiocchi nel dopoguerra, sul sito però di un insediamento più antico. Sembra proprio un diminutivo di fante, dal latino "infans", fanciullo. Forse, chissà quando c'era un accampamento di soldati, ma è più bello pensare a un tempo in cui c'erano così tanti bambini da dare il nome alla località. 
Poco sotto ci sono Case CampiStabiadèllo, dal latino "stabulum", recinto per animali; La Valle, già noto nel '700. Più su c'è La Rovinaccia, dove effettivamente il terreno non è molto stabile, forse perché vi scorre il Fosso della Rovina, che prende nome da un insediamento più a monte e si dirige verso… un'altra Rovina più a valle. 
Da qui facciamo una puntata verso Camporibaldo, che sulle carte più recenti a volte si trova erroneamente indicato come Campogaribaldo; non so se l'Eroe dei Due Mondi sia mai passato di qui, ma il toponimo è senza dubbio più antico dell'epoca risorgimentale. Inoltre ci troviamo in un territorio di confine che fin dal Medioevo (e certo anche prima) fu percorso da predoni e banditi: vuoi che non ce ne fosse almeno uno un po'ribaldo? Può darsi però che qualcosa di militaresco c'entrasse, dato che nel Medioevo la parola "ribaldo" indicava un soldato di bassa condizione che seguiva gli eserciti a piedi, saccheggiando il territorio attraversato.
Tornando sulla strada principale, dopo l'ennesima Rovina c'è Ca'd'Gianón, un grosso Giovannone: è il luogo in cui c'è l'albergo Corsini. Con un balzo saliamo a Ca'd'Florio, com'è ancora chiamata dai vecchi Ca'dei Fiori, nome peraltro molto azzeccato, dato che Simon Van Hilten ha trasformato in un giardino, fiorito di piante officinali, un podere in abbandono. Lì vicino c'è La Valletta, un campo di modesta estensione in un avvallamento del terreno, e sopra c'è Mont'Calvàrî, Monte Calvario, chissà perché, dato che non è neanche così erto. 
Attraversiamo il Fosso della Polla e vediamo il bel complesso del Palazzo, un programma già dal nome: l'edificio principale ha uno dei più bei portali del Belvedere, datato al 1753; fino a pochi anni fa conservava ancora i mensoloni reggi gronda in pietra scolpita, unico esempio sul nostro territorio. Purtroppo lavori recenti, condotti in maniera piuttosto arbitraria, hanno eliminato questo ingombrante relitto del passato, sostituito con un tetto di legno lamellare, che invece va tanto di moda… 
Ma tant'è, consoliamoci con i bizzarri toponimi nei pressi: La Ca' dî Strèn, la casa degli strani; E'CampiaciólLa Campiacióla (piccoli campi che per la parità dei sessi sono uno al maschile e uno al femminile); La PianaLa Vignaccia; un buffo Cornetto, un campo a punta, forse anche portafortuna; un grazioso Saivestrìn, Silvestrino: il proprietario era forse un piccolo Silvestro (Salvestro o Saivestro in dialetto) silvestre? Mah… E che dire delle Tonine? Forse delle tonanti Antonine?
Torniamo sulla provinciale. Dopo il bivio che scende dal Buio, c'è una casa sulla destra che, tanto per cambiare, si chiama Le Vigne. Da lì si vede bene Roncoravecchia, già presente negli Estimi del 1475 e poi nei Rogiti Serantoni del 1564; lì nei pressi c'è un Campo dal Pigo, campo del picchio. Più lontano c'è La Casona e ancora oltre il magnifico edificio delle Mógore, purtroppo quasi totalmente crollato. Le Mógore sono citate nei Rogiti Serantoni del 1564, ma quasi certamente il grande fabbricato è anteriore, per la presenza di una bella finestra a mensola bolognese che data il tutto alla fine del '400. Il nome, secondo un'ipotesi di qualche tempo fa, deriverebbe dal mogarìno, una varietà di pianta odorosa, oppure dal pino mugo, che però mi sembrerebbe ben poco a suo agio a una quota così bassa. E sempre in tema di vegetazione, se fosse un troncamento di Mo(go)rédo, cioè luogo piantato a gelsi? Erano coltivati anche altrove nel Belvedere (Lizzano, Maenzano). Lo stesso documento cita anche un luogo nei pressi, Vichiano, con terminazione prediale (cioè che riguarda la proprietà di un terreno agricolo) –ano, quindi forse "il podere di Vico (Ludovico)".
Scendendo lungo l'antica e bella strada che porta al Dardagna, lungo il cammino si trova Camposalice (Nuovo e Vecchio), un luogo di grande suggestione; poi La Torricella, un bell'edificio antico solo parzialmente rimaneggiato; Il Mulino di Mimo, dal nome del proprietario Domenico Bernardini che lo fece costruire alla fine del '800. 
Di fronte i monti della Riva, a guardia del territorio: infatti c'è un posto che si chiama La Guardia; poi c'è Zocàgna, italianizzato in Ciocàgna, forse dai molti ciocchi di legno che sicuramente c'erano in giro; poi, sempre in basso, vicino al fiume, Le Giàrle, che a me fa venire in mente qualcosa che c'entra con la ghiaia (data la posizione del posto), piuttosto che recipienti (giare) o chiacchiere (ciarle).  
Più su una serie di castagneti: Camp'Ardóndo, campo rotondo; Camp'Vècctio, campo vecchio, dove furono rinvenuti, alla fine dell'800, dei bronzetti votivi attribuiti agli Etruschi, a testimonianza di una lunghissima frequentazione di queste zone; Il Castagneto dell'Orbo, detto anche ed Rìcchi, un povero Riccardo privo di un occhio; poi La Rèsa, La Rasa, toponimo antichissimo che indica una spianata, che sulla Riva è una vera rarità. La Riva termina fra Trignano (comune di Fanano) e la Rocca con Desmòzzo, che secondo l'ipotesi prevalente significa terreno smottato, franoso, data anche la forte pendenza.
Al Mulino di Mimo la strada si biforca: saliamo verso Pra' dalla Villa, dove "villa" è da intendersi come "vicus", che vuol dire sia villaggio, borgo, che podere importante, il podere per eccellenza del territorio, peraltro molto antico, dato che in recenti lavori di restauro è emerso un bell'architrave datato 1416. 
La Torre è un magnifico complesso quattrocentesco ben conservato da un altro amico olandese Wim Brus, che ha ridato vita a un podere da anni in abbandono con le coltivazioni biologiche di mais e piante officinali. La Torre faceva parte dei possedimenti della chiesa della Rocca e il potere era coltivato da coloni che lì risiedevano.
Di fronte a Pra'dalla Villa ci sono Il Pianello e Guardéngo, molto più noto in zona come La Stazione, perché ci si doveva andare apposta, non c'era (e non c'è) una strada che passasse da lì. Guardéngo è citato in un documento del 1235; il nome deriva dal longobardo "warda", pattuglia di guardia, senz'altro appropriata in una zona di confine. 
Guardando dal Guardéngo, in basso si vedono Le Roncore, dalla stessa radice più volte analizzata "roncare", sarchiare, estirpare; più avanti, lungo il Dardagna, si trova il Molino della Piastra, costruito nel 1893 dello scalpellino-artista Luigi Poli di Casa Filippelli, su richiesta del proprietario, Battista Bernardini. Nel 1949 al mulino fu aggiunta la centralina elettrica. Il luogo prende nome da un'enorme lastra di arenaria su cui scorre l'acqua del fiume e che molto prima diede nome a un insediamento sovrastante ben più antico, citato in un documento del 1150, La Piastra: è un luogo che ancor oggi, disabitato e in gran parte in rovina, conserva un che di arcano e remoto. Non stupisce perciò apprendere che molti anni fa qualcuno vide, sospeso sopra la Piastra, un demonio con un dito fiammeggiante puntato verso il cielo… 
Se fosse stato affamato, avrebbe potuto dirigersi verso Ca'd'Moléna, un grande edificio abbattuto durante l'ultima guerra, situato sul pendio occidentale della torre di Rocca Corneta. Una possibile derivazione è da una forma contratta da "molénda" e quindi da "molendinarius", un mugnaio che forse abitava lì. Lo stesso antico documento cita anche un luogo vicino detto Le Plonàctie, forse una zona in cui si ricavavano polloni, giovani alberelli. Poi c'era Ca'd'Zafón, forse da "zaffo", antico vocabolo che significava sgherro, sbirro, di etimo incerto.
Tra diavoli e sgherri qui si mette male, sarà meglio fuggire a gambe levate verso il termine del nostro lungo cammino, la rocca della Rocca, entro le mura di quello che fu il fortilizio eretto dal governo bolognese verso la fine del XIII secolo, a difesa del territorio dagli attacchi dei modenesi. 
Di quel castello rimane solo la torre, costruita sullo sperone roccioso che avrebbe dato il nome alla località: in realtà un Arce Cornetum è citato già nel 1066. Un'ipotesi di qualche tempo fa (di Giovanni Carpani) faceva derivare Corneta non dalla roccia puntuta alle cui pendici sorgeva il fortilizio, ma dal latino "cornetum", ad indicare un luogo ricco di corniòli, dai frutti rosso scuro dalla polpa tenera e acidula e dal legno durissimo, usato per lavori al tornio per realizzare oggetti destinati a durare. 
Arturo Palmieri, nel suo impareggiabile lavoro sulla montagna bolognese, dice che alla Rocca c'era una notevole industria di zoccoli. Che fossero di legno di corniòlo? Di qualunque legno fossero, erano testimonianza dell'alacrità e dell'inventiva dei nostri progenitori, in un territorio ricco di vita e di mistero. 

 

                                                       


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