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Curiosita'

QUERCIOLA
Il topo, il bricco e la cotenna

di Franco Franci

E' il paese più "giovane" del Belvedere, poiché la parrocchia si è costituita solo agli inizi del '900 in un luogo in cui, precedentemente, non c'erano case. Fino ad allora questa zona faceva parte dell'antica parrocchia di Rocca Corneta, il cui territorio era dunque molto esteso.
Sacro e profano s'intrecciano profondamente nella giovane storia di Querciola. 
Il racconto dei fiori secchi  prodigiosamente sbocciati in pieno inverno, e la disputa sorta sulla gestione delle ricche rimesse degli emigranti; sono i due elementi dai quali 155 anni fa nacque il paese. 
Ma torniamo alla storia, siamo nei primi anni dell'Ottocento, all'epoca non esisteva un  paese ma solo alcune case di contadini che, come era uso in zona, ogni anno nel mese di maggio si recavano in pellegrinaggio a San Luca. 
Fra questi c'era anche Pietro Vighi che abitava ai piedi del Monte Belvedere il quale, assieme ad altri due paesani, decise di acquistare un'immagine in terracotta della Madonna e di collocarla al  suo rientro su un albero, appunto una quercia, posta esattamente nel luogo dove sorge oggi la chiesa, che nelle carte ottocentesche viene indicato come La Serra, all'epoca sotto la parrocchia di Grecchia. 
Si dice anche che la quercia fosse cava e al suo interno si trovasse un tesoro, nascosto da alcuni malfattori che non poterono mai recuperarlo.
In breve tempo l'immagine divenne oggetto di intenso culto e la tradizione popolare racconta di fatti prodigiosi  accaduti come quello di un piccolo vaso di fiori fu posto da Chiara Bernardini in Lenzi sotto la targa e improvvisamente, in gennaio, esso da secco che era rifiorì, oppure una serie di inspiegabili guarigioni miracolose in occasione della grande epidemia di colera del 1855, tanto da fare diventare il tronco dell'albero una sorta di ex-voto ricoperto da stampelle e tavolette votive. 
Si narra infatti che nel 1855 quando:
"… il terribile morbo del colera funestava le contrade d'Italia le persone di questi contorni, di fronte a questi pericoli, ricorsero alla Madonna, quella appesa alla   quercia". 
Tantissimi fedeli provenienti anche dai vicini comuni di Gaggio Montano, Montese e Fanano si rivolsero a Lei e prodigiosamente qui il colera non fece nessuna vittima.  
La gente del posto decise allora la costruzione di un oratorio. Su un terreno donato da Cesare Lenzi, padre di don Leopoldo, insieme alle famiglie Guerrini del Palazzo e Bernardini del Buio si impegnarono nella raccolta di offerte e nei lavori, oltre che nel mantenimento di un cappellano.
Il territorio su cui si trovava la piccola quercia era di pertinenza della parrocchia di Grecchia, ma don Domenico Castelli, parroco di quella chiesa, si oppose all'edificazione di un oratorio, affermando che ce n'erano già fin troppi. Ai devoti non rimase che rivolgersi al pievano di Lizzano, don Angelo Serantoni, che concesse la costruzione dell'oratorio sul terreno che divenne di pertinenza della pieve di Lizzano. I lavori terminarono nella primavera del  1856.  
Si trattava di un edificio di modeste dimensioni, lungo appena nove metri e largo cinque, dotato di un altare, inaugurato ufficialmente il 22 settembre 1859.    
Inizialmente l'interno era abbastanza disadorno: col tempo si provvide ad erigere altri due altari e un portico esterno (1870) per ospitare i pellegrini che giungevano numerosi da varie località dei dintorni e fino dal modenese. Nel 1878 fu costruita la sacrestia, con sopra una saletta e una cucina. Nel 1913 questo piccolo locale fu abbattuto per far posto all'attuale canonica.
Nel 1899, con l'arrivo di don Leopoldo Lenzi la chiesetta fu ulteriormente ampliata ma soprattutto furono poste le basi per la nascita  del paese. 
E' infatti a questa bizzarra figura di sacerdote, un po' poeta, celebri sono le sue zirudelle, ed un po' contadino come il saggio Bertoldo, che si deve lo sviluppo del borgo ed a lui l'appellativo di "Fondatore della Querciola".
Ma cosa centrano in tutto ciò le rimesse degli emigranti?  
Nel 1904 don Lenzi, sulla scorta di tante altre iniziative simili nate un po' in tutta Italia, aveva creato una pia associazione di emigranti che fruttava alla chiesa un discreto gruzzoletto. 
Così, se fino a quel momento le vicende di Querciola, posta esattamente sul confine fra le parrocchie di Lizzano, Rocca e Grecchia,  non erano interessate a nessuno, le rimesse degli emigranti cambiarono radicalmente la situazione e scatenarono un dissidio anche aspro fra i tre parroci. 
Nel 1893 il piccolo oratorio fu ampliato, grazie alle offerte di devoti dei paesi vicini, fino a Maserno e Trignano: gli abitanti lavorarono anche gratuitamente e offrirono materiali. La nuova chiesa fu costruita da Gaetano Fioresi da Pozzo su disegno dell'ingegner Borgognoni di Porretta e don Baldi, curato di Grecchia che spesso celebrava messa qui, offrì la campanella dell'oratorio di Valpiana. 
Nel 1901 fu eretto il campanile dall'impresa di Antonio Filippi di Lizzano: fu scelta la posizione attuale, consigliata dal dottor Burchi, medico condotto a Lizzano, anziché un'altra proposta, sull'altro lato della strada rispetto alla chiesa; nel 1908 furono inaugurate le campane, fuse dalla ditta Brighenti di Bologna.
Nel 1905 don Lenzi ottenne dall'arcivescovo di Bologna l'erezione della Via Crucis all'interno dell'oratorio
Nel 1910 l'interno dell'oratorio fu ancora modificato, sistemando il presbiterio ad imitazione di quello del santuario di Bologna, con sopraelevazione dell'ancona con l'Immagine, scalette e balaustre, il tutto ad opera di Corsino d'Affrico, che si ispirò anche alla cappella maggiore di Pietracolora. I due altari laterali furono dedicati uno al Sacro Cuore e uno a san Giuseppe.
Il 2 maggio 1913 l'oratorio fu elevato a santuario con apposito decreto del cardinale Della Chiesa, arcivescovo di Bologna, futuro papa Benedetto XV; assunse la dedicazione alla Beata Vergine della Querciola, la cui Immagine fu solennemente incoronata il 26 giugno 1922.
Il 24 gennaio 1931 il cardinale Nasalli Rocca emise il decreto di erezione della parrocchia, che fu solennemente celebrata il 2 luglio dello stesso anno: la nuova parrocchia comprendeva porzioni dei territorio delle parrocchie circostanti di Rocca Corneta, Grecchia, Lizzano e Vidiciatico. 
Il primo parroco fu don Leopoldo Lenzi, che prese possesso il 28 maggio 1932 alla presenza di don Montanari e dei testimoni don Giuseppe Mazzoli, parroco di Pianaccio, e Giuseppe Bernardini. 
Don Lenzi già da tanti anni si adoperava per la crescita della chiesa e del paese e si può ben dire che se il paese della Querciola esiste, lo si deve a lui, che morì il 21 luglio 1962, molto rimpianto dai parrocchiani che vollero dedicargli il busto di marmo visibile sul lato sinistro della chiesa.
La chiesa della Querciola ha continuato ad essere curata dai fedeli, con l'aggiunta di nuovi ornamenti, nuovi arredi e, recentemente, con la ridipintura dell'interno dopo un incendio che l'aveva completamente annerito. 
Il primo progetto per l'oratorio era piuttosto diverso da come sarebbe poi stato realizzato, diverso non tanto nella pianta, a capanna, quanto nella facciata. 
Negli anni '50 del Novecento, secondo il progetto dell'architetto Nino Marchetti, è stato aggiunto il nuovo portico antistante, arricchito poi in seguito con una  statua di Gesù. 
Gli anni '70 del Novecento, in particolare, sotto la cura di don Racilio Elmi, parroco alla Querciola dal 1969 al 1979, sono stati di notevole fermento, a partire dal rifacimento del tetto nel 1972 ad opera di muratori della Querciola volontari. Fu necessario anche provvedere al rinnovo della cappella dell'Immagine secondo la riforma liturgica di quegli anni e, nel 1978, alla risistemazione del presbiterio.
L'evento più significativo fu però la collocazione della nuova ancona, in legno intagliato e dorato, opera delle sapienti mani di Raffaele Vai (Raflìn) e dell'indoratore bolognese signor Amadori alla fine del 1972. L'ancona, donata da Tullio Romanelli, fu ufficialmente presentata ai fedeli in occasione della benedizione della nuova fioriera da parte del cardinale Poma il 26 maggio del 1973; la fioriera antica, più piccola, fu comunque restaurata e conservata.  
Il fatto più grave per la parrocchia fu però il furto dell'immagine originale il 28 giugno 1983 ad opera di ignoti. Il parroco del tempo, don Sergio Pasquinelli, provvide subito a sostituirla con una del tutto simile, ma il furto sacrilego ebbe eco anche sul "Resto del Carlino", anche perché poco prima era stata rubata anche l'immagine della Madonna del Faggio. 
Don Pasquinelli risistemò anche in parte l'interno e la sacrestia, collocando due nuove porte interne finemente ornate, opera dei fratelli Mimmo e Giampaolo Giacobazzi di Vidiciatico. 
Ancor oggi è visibile sulla vetta del Monte Belvedere una bella croce di ferro, che ha superato indenne i bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale e le ingiurie del tempo che passa. La croce è stata restaurata intorno al 1985 ma la sua erezione, molti anni prima, non fu semplice, soprattutto per motivi economici; in ogni caso, fu fortemente voluta da don Lenzi e  dagli abitanti di Querciola. Fu innalzata l'8 ottobre 1905 da una persona generosa e pia, come ex voto.
Ovviamente per la giovane età Querciola non presenta strutture architettoniche di rilievo, qui a farla da padrone è il paesaggio ed i panorami mozzafiato che consentono una visione a 360 gradi sulla valle del Silla, da Monte Acuto delle Alpi al Corno alle Scale ed oltre fino al Cimone.
A confermare la vocazione agricola di questa zona, negli anni '60 del Novecento nacque un caseificio in cui, ancor oggi, si produce ottimo Parmigiano Reggiano.
La Linea Gotica: A nord del paese sorge il Monte Belvedere. La sua posizione ne ha fatto da sempre un luogo di grande importanza strategica. 
Lo fu durante il Medioevo e lo divenne anche durante il secondo conflitto mondiale quando entrò a fare parte della Linea Gotica; era uno dei capisaldi della linea supplementare detta Linea Verde. Tale baluardo fermò l'avanzata delle truppe alleate per sette mesi, dall'autunno del 1944 al  febbraio del 1945. 
In alcune zone si notano ancora le trincee scavate dai soldati. 
Caduta Firenze l'esercito tedesco in Italia agli ordini di Kesselring aveva cominciato a ritirarsi verso l'Appennino, lo inseguivano agli ordini del maresciallo inglese Sir Harold Alexander  due armate alleate, la  5° americana ad occidente e l'8° inglese ad oriente. 
Rapidamente fra agosto e settembre  gli alleati avevano liberato Lucca e Pistoia è a questo punto che,  giunti sull'Appennino le cose si complicarono. 
Kesselring, infatti, era riuscito a  raggiungere la Linea Gotica, il lungo baluardo  fortificato che tagliava in due  la penisola fermò la guerra sul fronte italiano per altri sette mesi. 
Una situazione di stallo, dovuta in parte  alle difficoltà ambientali ma soprattutto alla scelta strategica compiuta dal comando alleato di rafforzare il fronte occidentale sottraendo alla campagna d'Italia ben 5 divisioni. 
Determinante fu l'arrivo della 10° divisione da montagna americana, l'unità specializzata nella guerra in alta quota. 
Si arrivò così al mese di febbraio del 1945 quando finalmente giunse l'ordine di attacco. 
Il 19 febbraio gli americani conquistarono  a sorpresa il crinale del Monte Riva mentre il giorno successivo cominciò l'attacco  al Monte Belvedere.  
Qui, perduto l'effetto sorpresa, la reazione tedesca fu rabbiosa, un intenso fuoco di sbarramento con mortai, cannoni e mitragliatrici, resero  molto difficile l'avanzata degli americani che dopo oltre un'ora di combattimenti erano  riusciti a procedere di soli 300 metri. 
Conquistato il Belvedere, nei giorni successivi  gli alleati s'impossessano di tutte le altre postazioni lungo la linea Gotica fino al definitivo collasso delle truppe tedesche che portò pochi mesi dopo alla liberazione dell'Italia.
Un bel monumento ricorda i caduti, italiani e stranieri, che si batterono in quell'occasione. Un altro monumento, posto sulla cima del Monte Belvedere, ricorda i soldati americani della Decima Divisione da montagna (Xth Mountain Division).
La Corona: borgo che fu raso al suolo per le battagli sulla Linea Gotica. 
Il castello sul Belvedere: A nord del paese sorge il Monte Belvedere sulla cui vetta è possibile osservare  i resti del castello costruito nel 1227 per volontà del Senato bolognese per arginare il tentativo dei modenesi di impadronirsi di questa zona.
Secondo l'Abate Serafino  Calindri il castello si presentava: 
".. di figura irregolare, ma approssimavasi ad un trapezio, aveva una porta con ponte elevatojo difesa da una torre dalla parte che guarda il Modenese, aveva un'altra torre nella estremità dell'interno cassero, e nella parte più alta della vetta del Monte, nel qual è costruita, ed aveva cassero, contro cassero e spianara". 
Effettivamente, dal rilievo effettuato e dalle conoscenze costruttive tipiche dell'epoca, la descrizione coincide perfettamente con quanto svelano i pochi resti del castello ancora presenti.
L'edificio ha una lunghezza di 72 metri circa ed una larghezza di 20 nel lato più grande e di 8 metri in quello minore, appunto una forma trapezoidale dovuta alle caratteristiche morfologiche del monte del quale occupava l'intera sommità.  Era circondato  da mura alte 10 metri con uno spessore di un metro e mezzo costruite al "opus quadratum", cioè utilizzando grossi blocchi di arenaria sommariamente squadrati e disposti su due file.  
Una fortezza, quindi, possente e ben difesa, ma tutto sommato di dimensioni ridotte, che aveva il duplice scopo di proteggere la piccola guarnigione, 13 soldati in tutto, e di avvisare la città dell'eventuale pericolo. 
In mancanza di mezzi di comunicazione i bolognesi avevano escogitato per questo un sistema semplice ma efficace: in caso di pericolo notturno il capitano doveva esporre sulla torre più alta tre lumi, ripetendo l'operazione finché non avesse ricevuto risposta dal castello vicino e così, di castello in castello, fino a raggiungere Bologna dove i guardiani della torre degli Asinelli avvisavano del pericolo l'intera città.  Durante il giorno i lumi erano sostituiti da segnali di fumo.
La notizia dell'ultimo castellano, tal Giacomo di Bartolomeo, risale al 1401 mentre i mutamenti storici ed amministrativi intervenuti negli anni successivi fecero venire meno il valore militare di questo castello che fu abbandonato definitivamente alcuni anni dopo e poi quasi completamente distrutto ad opera degli stessi abitanti del luogo che avevano l'abitudine di utilizzare le sue pietre come prezioso materiale da costruzione. 
Espletò molto bene la sua funzione, data la posizione dominante con visuale amplissima a 360°, fino agli inizi del '400, quando vennero a mancare i presupposti che avevano portato alla sua fondazione. 
Uno degli ultimi castellani noti fu, nel 1371, Aimerico della Malamorte, che qui risiedeva con 20 armati, tutti stipendiati da Bologna, ed era stipendiato con 50 fiorini d'oro al mese. 
Il castello fu man mano smantellato per costruire i casolari della zona, utilizzato quindi come "cava" in una zona in cui la pietra da costruzione non era abbondante. 
Sono ancora ben visibili, nonostante le tormentate vicende dell'ultima guerra, le due porte del castello, l'intero perimetro delle mura e la cisterna, che consentiva l'approvvigionamento d'acqua potabile in una zona priva di sorgenti: raccoglieva l'acqua piovana che si purificava poi per percolazione all'interno di un pozzo.
L'Oliva: uno dei fatti più misteriosi del Belvedere accadde proprio sul Monte Belvedere.
Il 14 novembre 1778 furono celebrate le esequie di Oliva Crudeli, giovane sposa incinta che mancava da casa da molti giorni. Il corpo fu rinvenuto, con tracce di bruciatura, presso le rovine del castello, e la sua morte fu considerata misteriosa, tanto che alla sua scomparsa è dedicata un'intera pagina del registro dei morti della chiesa di Rocca Corneta. 
Si diceva che sotto le rovine del castello ci fosse un tesoro custodito dal diavolo, che lo avrebbe ceduto soltanto a chi gli avesse portato una giovane donna, incinta, che avesse il nome di una pianta. 
Una famiglia della zona si accordò con lui e gli portò la giovane Oliva, rapita dalla sua casa dei Ghiambri: quando il diavolo vide che ella portava un cinturino con l'immagine della Madonna, la lasciò cadere, lasciando traccia delle sue mani infuocate sul corpo della donna.
Cadendo, il corpo stesso produsse un solco a forma di croce, secondo alcuni visibile ancor oggi.

Toponomastica

La Querciola è forse il paese più giovane del Belvedere, poiché la parrocchia si è costituita solo agli inizi del '900 in un luogo in cui non c'erano case ma solo una piccola quercia, su cui era stata posta una targa devozionale della Madonna di San Luca, frutto di un pellegrinaggio al santuario di Bologna. 
Il luogo nelle mappe del XVIII-XIX secolo è detto La Serra, cioè un punto elevato da cui si può vedere un po' intorno, e in effetti si trova sullo spartiacque tra le nostre due valli. Si dice che fu un tale Pietro Fiocchi a porre la Madonnina nella quercia, con sotto un vaso di fiori, che poi invecchiarono ma nessuno si preoccupò di toglierli, finché un giorno di gennaio del 1840 si trovarono tutti i fiori freschi come appena messi: il miracolo della fioritura portò al sorgere dapprima di una maestà, poi di un oratorio, poi della chiesa attualmente visibile, innalzata alla dignità di parrocchia dal Cardinale Nasalli Rocca nel 1931.
Anche se dove c'era la "querciòla" non c'erano case, ciò non toglie però che tutta l'area circostante fosse densamente abitata, favorita in questo dalla buona esposizione e dalla morfologia meno tormentata rispetto alla parte sud del nostro territorio. 
La nostra passeggiata comincia alla Maséra e zona circostante. "Maséra" nel nostro dialetto significa mucchio di sassi: una possibile derivazione è dal latino "massa", che vuol dire mucchio, ammasso. 
A dire il vero non  ci sono pietre lì intorno, ma visto che anche oggi La Maséra è un valico e c'è un importante incrocio di strade, può darsi che ci fosse un grosso deposito di breccia da spargere sulle strade, che fino agli anni'20 del '900 non erano asfaltate, neppure la principale tra Porretta Terme e Fanano. 
Proprio qui si trovava l'osteria della Letizia, pittoresco personaggio che non mancava, pare, di servire gli avventori e anche se stessa di robusti bicchieri di toscano. Il tracciato attuale della strada che dalla Querciòla scende verso Vidiciatico ricalca in gran parte quello altomedievale, che da Castel Leone (Bombiana), attraverso il Monte Belvedere, conduceva verso Vidiciatico e verso le strade di crinale a confine con la Toscana.
La maestà che domina il valico è detta Maestà d'la Roselìnda, forse colei che la fece erigere, così come era suo anche il grande campo alle spalle della maestà, che scende verso L'Arvìna, una delle tante "rovine" (cioè frane) che segnano questa parte del Belvedere. Si dice che questa Roselìnda rincorresse con un grosso bastone i ragazzi che, al pascolo, lasciavano entrare il bestiame nel suo campo.
Poco prima della Maséra, in una zona che forse sarebbe di più di pertinenza di Vidiciatico, c'è Pra' dei Rossi, il campo tra la casa di Ezio Fioresi e Il Póggio. Nessuno sa perché si chiami così: forse i proprietari erano rossi di capelli o… di cuore. Il Póggio, di significato trasparente, è detto anche Ca'd'Sabadìn, come era meglio conosciuto il proprietario, Martino Marcacci.
Dall'altro lato del valico, verso Sasso, c'è Al Ctiusarèl, le Chiusarelle: in realtà non è affatto un luogo chiuso; forse il nome fa riferimento a una serie di piccoli poderi chiusi da recinti, anche se c'è chi ha ipotizzato la presenza qui di una serie di chiuse sul corso del canale naviglio di cui abbiamo parlato a proposito di Poggiolforato.
Tornando verso La Querciola si trova Ca' di Frâb, casa dei fabbri, dal mestiere del proprietario, che ha originato un soprannome ancora ben presente, i Frabétti. Non so perché, ma nel nostro dialetto il fabbro diventa "frabbo": forse era più comodo da pronunciare. Comunque i Frabétti non hanno problemi di pronuncia e, anzi, hanno tutti un eloquio piuttosto fluente.
Ca' di Frâb in una mappa di fine '800 è detta Ca' Bertè, perché pare che il suo costruttore si chiamasse Bertino, che nella trascrizione è diventato Bertè. Da Ca' di Frâb si vedono in basso, verso la frana, La Casellina e I Forcón, dei minacciosi forconi che sono in realtà due piccoli ruscelli, piccoli ma in grado di originare una frana di notevoli dimensioni, che ha travolto anche una vecchia strada che dalla Pozza conduceva al Buio. Si diceva che su questa strada, proprio presso i Forcón, si vedesse il diavolo: ma allora la minaccia era reale! 
Dietro Ca' di Frâb c'è il Pra' d'la Cró∫a, ma non si sa che croce né chi l'avesse posta, e in fondo al bosco dietro la casa c'è una sorgente detta La Fontanina, dove i ragazzi abbeveravano il bestiame al pascolo (quando non lo lasciavano vagare nel campo della Rosalinda). Questa sorgente, che oggi ha visto abbassarsi la sua falda e perciò non è più visibile, origina un ruscello che finisce nel Fosso della Torre, nel territorio di Rocca Corneta.
Salendo ancora verso il paese c'è Il Poggiòlo. Lì nei pressi c'è la strada sterrata che scende in Sasâija, nome quanto mai appropriato, data l'abbondanza di pietrame erratico.
Prima di Sasâija però c'era Ca' d'la Cód'ga, casa della cotenna… Direi che difficilmente si possa trovare un toponimo così divertente, originato dal soprannome della proprietaria che era "secca stlà", poveretta! Ma meglio "secca stlà" che insensibile, dato che, in senso spregiativo, di una persona senza scrupoli si dice che "ha la cotenna dura". Ca' d'la Cód'ga non esiste più, è crollata durante la guerra o poco dopo. 
Da Sasâija si scende al Buio, piccolo borgo già presente nel '500. Veramente questo è uno dei toponimi più inspiegabili, considerando che la zona è anzi aperta, con ampia vista verso la Val Dardagna. Una possibile derivazione è dal latino volgare "burius", che vuol dire rosso scuro; rimane comunque da spiegare cosa ci fosse di rosso al Buio. Forse sangue…
Risalendo verso La Querciola si trova il campo sportivo, che sorge nel Pian d'Guidòt, un piccolo Guido, magari un po' grassottello. Poco oltre c'è Prada, che ricorda dei prati: in effetti potrebbe essere una variazione dell'antico "le prata", che altro non è che il plurale del "pratum" latino e così anche per I Pradàcci, poco sopra e per I Pradiciôl più oltre, nei pressi della Ca' Nóva della Polla, che però ormai tanto nuova non è. Poi La Polla, dove forse era presente una vena d'acqua: deriva dal latino "pullus", che indica un giovane animale che cresce e, per estensione, un germoglio o qualcosa che nasce. L'alternativa è piuttosto cupa, dato che l'altro significato di questo termine è "scuro, fosco, lugubre". Meglio l'acqua.
Tra La Polla e La Corona c'è un'area boscosa detta La Guardinghéna, La Guardingàna, per la quale non so cosa pensare: per la prima parte del toponimo mi viene in mente il longobardo "warda", che vuol dire guardia, vedetta (e nel Belvedere sono molti i toponimi longobardi), mentre per "gana" (a cui nel mio scritto precedente avevo dato il significato erroneo di "fretta") trovo "piacere, allegrezza, desiderio ardente". Non so se qualcuno avesse provato il gran desiderio di stare di guardia qui, in tempi travagliati come quelli antichi, quindi… 
Passiamo oltre e arriviamo alla Corona, nome quanto mai appropriato per questa località che incorona dall'alto gran parte del territorio belvederiano. Durante l'ultima guerra fu quasi completamente distrutta nel corso dei furiosi combattimenti che opposero le truppe tedesche (asserragliate sul Monte Belvedere) a quelle alleate. 
C'è chi ha considerato una derivazione dal toponimo da "goróna", grossa gora d'acqua, anche considerando che il laghetto di pesca sportiva che si trovava qui fu ricavato in un'area, detta I Lagóni, in cui era già presente un piccolo stagno naturale. 
Intorno alla località della Corona vi sono alcune altre località: Ca' de'Tóp, Casa del Topo, soprannome del proprietario; La Fornà∫a, La Fornace, un campo vicino al laghetto di pesca sportiva. C'è forse una relazione con La Calcinàra, che vedremo più avanti? Che cosa si cuoceva in questa fornace? O forse indicava un luogo caldo perché ben esposto al sole? Tra luoghi bui, oscuri, e fornaci, comincia a correre qualche brivido lungo la schiena… Forse ci passerebbe, se fossimo rincorsi dal bricco (montone) che dà il nome al Gròt del Brìc
Riprendiamo fiato a Valpiana. Giorgio Filippi sosteneva che si dovesse leggere "Voipiàna", sulla base della pronuncia dialettale locale. Secondo quest'ipotesi il nome indicherebbe un luogo ricco di volpi: non so se fossero così numerose da originare un toponimo, ma il luogo è abbastanza pianeggiante, anche se non una valle; ci sono però dei campi abbastanza pianeggianti. 
Calindri ricorda l'oratorio qui eretto, citando anche il Diploma di Astolfo dove la località è detta Variana: o si tratta di un prediale di qualche signor Vaius o Varius o qui c'era qualcosa di variegato, sull'esempio delle Vaie (ne parlo più avanti). 
In un documento del 26 aprile 1778, da me rinvenuto nell'archivio della pieve di Lizzano, è riportato l'atto di nascita dell'oratorio di Valpiana nel luogo detto Ca' di Giovannetti: questo era all'epoca il nome della località su cui sorge l'oratorio, essendo Valpiana, più che un borgo vero e proprio, piuttosto un'area più vasta in cui si trovavano e si trovano casolari sparsi. In un documento dalla fine del XVII secolo citato da Benati si dice che In Valpiana, alla Calcinara e alla Casaccia c'erano posti di guardia con due soldati ciascuno.
Monte Belvedere domina con la sua mole tutta la nostra terra, baluardo e confine con il territorio modenese. Il suo è un nome molto antico e, contrariamente ad altri monti del nostro territorio che sono stati variamente "battezzati" nel corso del tempo, non è mai cambiato e si è rafforzato nominando anche tutto il nostro territorio. 
Poco sotto la sua vetta c'è Pian dell'Acero, un posto bellissimo che io amo particolarmente, dal nome di significato chiaro. Lì nei pressi c'è E' Chèmp d'la Madòna, il Campo della Madonna, così detto per la presenza di una targa devozionale un tempo appesa a un albero ai margini del campo. La versione popolare attribuisce invece il nome del luogo all'abitudine esecrabile del proprietario di bestemmiare, ma non credo che sia così: purtroppo molti luoghi avrebbero lo stesso nome o nomi simili e invece, per fortuna, non è così.
Sempre lì vicino c'è La Cavànna, la Capanna, che attualmente è una normale abitazione, ma che forse un tempo era poco più che un rifugio, un edificio di piccole dimensioni destinato a ricovero per attrezzi o bestiame. 
Un edificio non più esistente, abbattuto durante la guerra, era La Taibèna, italianizzato in La Taibàna: è veramente arduo trovare l'origine di questo toponimo. Un'ipotesi (estremamente azzardata, ne convengo) è che derivi dal latino "tabanus", tafàno, che potrebbe essere giustificata dalla presenza di bestiame brado, quindi afflitto da parassiti di vario tipo; oppure la proprietaria (o moglie del proprietario) era talmente noiosa e proterva da meritarsi "la tafàna" come soprannome… 
Né va meglio per il Pavirè, che forse indicava un terreno spianato, pronto per la coltivazione, dal latino "pavire"; ma dato che il Pavirè è detto anche E' Büs, il buco, ecco che l'ipotesi precedente viene a cadere! 
Per fortuna nei pressi ci sono luoghi dal nome più evidente: La Costa, un campo erto sopra al Pavirè; E' Spuntón, un campo lungo lungo di forma trapezoidale, largo in alto e stretto in basso; E' CampónLa Fontana, una sorgente che riforniva di acqua tutta la zona.
La Calcinàra trae il nome dalla presenza qui di una cava di pietra da calce e della macina per frantumarla. Si dice che il castello sul Monte Belvedere fosse stato costruito con la calce prodotta qui. 
Intorno alla Calcinàra ci sono: E'Chèmp dal Miarìn, secondo alcuni perché venduto da gente delle Miarìne (Rocca Corneta); l'ipotesi più probabile è che ci fosse una coltivazione di miglio o altre graminacee; E' Chèmp d'la Vèggna, il campo della vigna, da molti anni sparita; E'Chèmp dal Sodâc', campo del sodaccio, terreno coltivato non si sa perché col peggiorativo, dato che è un bel posto aperto. 
Più in basso c'è La Casetta e più vicino alla Querciòla l'area in cui si trova il caseificio è detta Al Mactiarèl, le Macchiarelle, un bosco poco folto che arriva fino in Prada e che dà il nome anche a un fosso e a una casetta detta anche La Ca' di Spìrit, la casa degli spiriti, perché "e's'gh'e'v'déva".
Dall'altra parte, verso Grecchia, c'è La Casaccia, un bel gruppo di edifici antichi attualmente sede di un'azienda agricola: nei documenti del '600 è detta "Casaccia degli Albergati" perché possedimento dei conti Albergati-Capacelli di Gaggio Montano. 
Entro il grande podere della Casaccia ci sono: E'Chèmp de' Practìn, il campo del "pràcctio", pero selvatico; E'Chèmp de' Forcón, il campo del forcone; E'Chèmp dî Lêg, campo dei laghi, dove si fermava l'acqua; E'Chèmp dal Guazèr, italianizzato in Le Guazzàre perché, essendo all'ombra, si asciuga a fatica la rugiada del mattino e perciò si sguazza nell'umidità. 
Più sotto, più vicina alla strada detta La Direttissima che unisce La Querciòla a Gaggio Montano, c'è La Primarella, un bell'edificio del 1870.
Il Fosso delle Vaie divide la zona della Querciòla da quella di Grecchia. Tutta l'area un po' franosa tra La Querciòla e Le Vaie è detta I Calancón, grossi calanchi;più sotto, sul Pont'd'la Ca Nóva (che scavalca il Rio delle Vaie), si dice che ci fossero i fantasmi, in realtà dei buontemponi travestiti che si divertivano a spaventare i passanti.
L'ultima località di pertinenza "querciolese" sono Le Vaie (di Sopra, di Mezzo, di Fondo): nei documenti del '600 è però indicato come "Le Vaglie": poiché un tempo questa era un'area ricca e fertile, dove abitavano molte famiglie, si può pensare che si vagliasse molto grano o altri cereali.In realtà, ancora una volta ci soccorreAugusto Ancillotti, che propone la derivazione dal latino variae: a bene l'origine da varius, ma non a causa degli scoiattoli (come sosteneva l'avvocato Filippi), bensì da terrae variae, cioè quelle di colore chiazzato detto spesso di terreno di natura contrastante perché sopra grasso e sotto arido (Columella). Era lo stesso Filippi a sostenere che il Variana del diploma di Astolfo sia un adattamento di questa stessa designazione: probabilmente in quel caso si ha l'ellissi di terra nel sintagma terra variana (anche se le probabilità che continui un Villa Variana, cioè possedimento della gens Varia è altissima). 
In ogni caso, tra grano e cotenna lungo questo itinerario non ci è mancato niente, sempre che E'Tóp non si sia rosicchiato tutto! 

 

                                                       


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