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CORNO ALLE SCALE
Alpi: mirtilli di pietra e di ghiaccio

di Alessandra Biagi

Vallata Est del Corno alle Scale
Vallata Est del Corno alle Scale

Come è noto, il territorio belvederiano è dominato, a sud, dalla mole possente del Corno alle Scale e delle altre cime del crinale appenninico.
Pur essendo aree di difficile accesso, soprattutto in tempi passati, sono sempre state frequentate dell'uomo, come dimostrano i rinvenimenti di materiali databili al Medio Neolitico, circa 8000 anni fa, della Sboccata dei Bagnadori e del lago Scaffaiolo.
Questa frequentazione ha naturalmente portato a una denominazione dei luoghi già in tempi piuttosto antichi, se diamo credito alle identificazioni del Corno con il Mons Balista citato da Tito Livio a proposito della sconfitta subita dai Romani nel 216 a.C. ad opera dei Liguri Friniates.
Ma senza andare così lontano, e rimanendo su fatti un po' più certi, il nostro monte più alto è quello che più spesso ha cambiato nome nel corso del tempo, conservando però nelle varie denominazioni quelle che sono le sue caratteristiche peculiari, cioè la grande stratificazione a gradini ben visibile sul lato est e il fatto di non essere sul crinale ma di distaccarsene come un'ala a parte.
Infatti si è chiamato Alpes Scalarum, Montem de Scale, Corno delle Scale… Ma il nome che più caro è senza dubbio Capotauro, come era conosciuto nel X secolo, quando viene citato in una ricognizione dei confini del Belvedere compiuta da legati dell'imperatore Ottone nel 969.
Questo nome è estremamente indicativo della morfologia del monte, in quanto riunisce in sé il termine latino "caput", testa, parte principale, e quello prelatino "taur", che indica un giogo di monte.
Quanto a Corno alle Scale, proprio perché i nomi di luogo nascevano dall'osservazione del luogo stesso, non si chiama così perché sembra un corno di bovino (sebbene dalla Riva appaia di forma piuttosto appuntita), ma perché è un "cornu", cioè "un lato, un'ala" di una catena principale di monti. Anche perché sarebbe un bovino ben strano, con tre corna. Infatti, oltre al Corno, 1944 mt, ci sono Punta Sofia dove c'è la croce, 1939 mt, e Punta Giorgina 1927 mt, definizioni che si credeva moderne, in relazione alla nascita della stazione sciistica, mentre invece si trovano già nel Foglio 97 della carta IGM con i rilievi del 1881; non si sa chi fossero Giorgina e Sofia.
Oltre alla bellezza e maestosità l'altro elemento distintivo del Corno alle Scale è la croce che lo identifica immediatamente anche da grande distanza.
La sua costruzione risale al 1900, in occasione del Giubileo quando nacque un apposito comitato per "Il solenne omaggio a Gesù Redentore nel chiudersi del secolo e sorgere del XX secolo", con lo scopo di erigere un cippo con la croce su 20 vette d'Italia in memoria dei 20 secoli dalla redenzione.
La prima croce di metallo resse per ben cinquant'anni e fu sostituita per ragioni di sicurezza in occasione dell'anno giubilare del 1950.
Così è rimasta fino alla notte del 1° ottobre 1983 quando con un gesto vandalico fu segata alla base e gettata in un burrone.
Immediatamente si costituì un comitato presieduto dal Senatore Giovanni Bersani che provvide alla costruzione di una nuova croce, inaugurata nel 1984, realizzata interamente in alluminio imbullonato con le stesse dimensioni della precedente: un'altezza di 14,80 metri, un'apertura delle braccia di metri 6,20 ed un peso complessivo di ben 1300 chilogrammi.
Quasi sospeso, fra il corrucciarsi arcigno dell'alpe e la molle opulenza del piano, il massiccio del Corno alle Scale si presenta al visitatore come un mondo a se, tutto da scoprire.
La sua ascesa rappresenta infatti una sorta di viaggio nel tempo che, nel volgere di pochi chilometri, proietta l'escursionista dai dolci declivi del fondovalle fino alle aspre e spettacolari pareti rocciose che caratterizzano il crinale. Ovviamente la zona più nota e frequentata da escursionisti e sciatori è quella del Cavone anche se il vero Corno si incontra scalando la parere est, quella della Segavecchia, solcata da una serie di stretti canalini attraversati da minuscoli torrenti dai nomi poetici.
C'è la Radicchiaia, la Tana Malia, il Fosso dello Snotto, le Naspe o il mitico Mont Gnicco, il cui nome deriva proprio dal tipico "gnìcco", cioè il suono gutturale che si emette involontariamente quando si compie uno sforzo.
Luoghi bellissimi quanto impervi, da percorrere se si è davvero esperti, meglio se accompagnati da qualcuno che li conosce bene, in grado però di regalare emozioni uniche.
E' il caso ad esempio della Tana Malia, un vero incantesimo della natura come sottolinea il nome, contraddistinta da una dozzina di cascate incassate fra due muraglie di roccia delle quali una buona metà di altezza davvero considerevole, fra i 18 ed i 35 metri.
L'ascesa più bella verso la sua vetta è sicuramente quella dei Balzi dell'Ora, cioè della tramontana, perché salendo si comprende meglio l'origine del nome di questa montagna le cui stratificazioni rocciose appaiono all'escursionista come altrettanti gradini di un'immaginaria scala che pare davvero non finire mai.
Ma se questo è il Corno percepito oggi dalle migliaia di escursionisti che lo scelgono come meta, un tempo queste creste furono il passaggio obbligato per i viaggiatori che lo solcavano a ponente lungo l'importante strada di collegamento con la Toscana e poi, in tempi più recenti, luogo di lavoro per chi faticava lungo le sue pendici per tagliare legna o, più in alto dove cresce solo l'erba, per pascolare le greggi.
Della parete est del Corno si parlerà a proposito di Pianaccio, per cui qui si volgerà lo sguardo dall'altra parte.
Subito si nota come i toponimi di questa parte alta del territorio fanno spesso riferimento alla vegetazione e alle rocce, elementi sicuramente dominanti in quota.
Sul crinale, partendo da sud, si trova il Poggio delle Ignude, credo in relazione a rocce prive di copertura vegetale e non a graziose fanciulle che abbiano sfidato l'òra delle nostre vette.
Poi Monte Gennaio, un nome un programma, e L'Uccelliera, toponimo che definisce un'area più ampia che va dal Poggio dei Malandrini (già in Toscana) fino al Passo del Cancellino.
Sembra che l'Uccelliera (che Calindri chiama "Ucellaja"), dove tra l'altro c'è una ricca sorgente di acqua ottima, debba il suo nome al fatto che, ai tempi del granduca Cosimo I, qui si tendessero grandi reti per catturare gli uccelli, destinati ad arricchire le voliere e le mense della corte medicea.
Più oltre ci sono i Balzi della Malacarne, toponimo noto almeno dal XVIII secolo, dato che compare nel Dizionario di Calindri: chissà, forse qualche incauto o sfortunato viandante precipitò da queste rupi, conciando molto male la sua carne.
Si sale ancora, non senza notevole dispendio di energie, su per il Poggio dei Golfi, anche se siamo ben lontani dal mare: una possibile derivazione è dal greco "kolp", volgere, inarcarsi, e dato che effettivamente si tratta di un'erta piuttosto ricurva, chissà… Sotto il Poggio dei Golfi, verso Monteacuto e Pianaccio, ci sono I Valloni, di significato chiaro; La Verzicana, che già è più difficile: a me ricorda qualcosa che ha a che fare con il verde, con la vegetazione, forse dal latino "viridare", verdeggiare, attraverso l'antico italiano "verzicare", di significato analogo; I Vallini; Le Scaffe: nel nostro dialetto la parola "scaffa" indica un riparo sporgente, di solito di roccia, elemento che qui non manca.
Più difficile adattare questo toponimo al lago Scaffaiolo, ma ne riparleremo a tempo debito.
Subito dopo c'è il Passo del Cancellino, anche qui in riferimento al confine con la Toscana: fino qui infatti giungevano i pascoli, recintati da reti in cui forse c'era anche qualche varco aperto per permettere il passaggio da una parte all'altra del confine.
A proposito di confine, il lato toscano del Cancellino si chiama Le Verdianelle.
Saliamo ancora sullo Strofinatoio, un nome che spiega tutto: anche questo è un toponimo abbastanza antico, dato che compare in varie mappe del XVII secolo come Stroffionatorio, Strofinatoglio, Strofinatoria; in ogni caso si sta in piedi a fatica.
Ai nostri piedi ci sono la sorgente e la capanna del Sasseto (rifugio CAI), nome che si spiega benissimo da solo; i vecchi dicevano Sassàija, che è la stessa cosa.
Lasciato il crinale e giunti su Punta Giorgina, guardiamo verso ovest e vediamo l'ampia distesa erbosa dove oggi c'è la pista da sci, che i toscani chiamano "Paginone" per la forma come di libro aperto.
Un tempo tutta questa parte del Corno era detta Alpe di Rocca Corneta: qui venivano i pastori della Rocca con le loro greggi e qui tentavano anche qualche coltivazione, nonostante la quota molto elevata.
Durante il ventennio fascista in quest'area furono piantate clandestinamente le patate tentando, peraltro con successo, di sfuggire all'ammasso: rimane il segno di queste coltivazioni in tracce di piccoli terrazzamenti ricavati sotto il Sasseto.
Da Punta Giorgina andiamo verso Punta Sofia e vediamo, sotto i nostri piedi, i Balzi dell'Òra, spazzati spesso da venti impetuosi come dice il nome, dal latino "aura", aria, vento.
Di fronte a noi il monte La Nuda, già citata come Alpe Nuda nel 1227, che deve il suo nome all'assenza di vegetazione sulla sua vetta.
La Nuda è coronata dal Catinaccio, dal Fabuìno e più in basso dal Casóne dei Bagnadóri, di cui si è detto parlando di Pianaccio.
Tra il Corno e La Nuda c'è il Passo del Vallone, ancora un toponimo dal significato chiaro, dato che si apre sull'ampio circo glaciale di Rio Piano, oggi detto Valle del Silenzio.
Rio Piano alimenta il lago artificiale del Cavone e poi finisce nel Dardagna; poco più avanti c'è Rio Cavo, che entra anch'esso nel Dardagna sotto il Cavone.
Dalla Valle del Silenzio parte il sentiero della Porticciòla, piccolo passo roccioso che sale sul Corno costeggiando la pista da sci sulla sinistra.
Alla nostra sinistra il crinale prosegue con Il Cornaccio che domina la Piana della Calanchetta che però proprio piana non è.
Poi si scende al Passo dei Tre Termini, così detto dal cippo in pietra posto nel 1763 a segnare il confine tra Bologna, Modena e Pistoia; prima si chiamava Passo della Calanca, nome che si è spostato avanti, andando ad indicare la sella che si trova tra monte Cupolino e monte Spigolino.
Calindri però chiama i Tre Termini Ancisa, definendola "una delle più alte Alpi che divida la Toscana dallo Stato di Bologna": non so che dire, se non che mi viene in mente una derivazione da "ancìdere", forma poetica di "uccidere", perciò sarebbe "l'Uccisa"...
Qui tra Ignude, Donnamorta, Malacarne e Ancisa tira una brutta aria; meglio proseguire.
Proseguendo si arriva al Monte Cupolino, nome moderno che ha sostituito un buffo Monte Borachino, com'era noto nel XVII secolo; anche qui è per me impresa ardua tentare un'ipotesi: mi ricorda la bòra, o comunque un vento impetuoso che sicuramente quassù c'è spesso, appena ingentilito dal vezzeggiativo -ino.
Molto più semplice esaminare parlare di Monte Spigolino, anticamente detto Fulgorino per la frequenza con cui i fulmini cadevano, e cadono, sulla sua vetta acuta.
Però però… Le parole con cui Calindri descrive questa parte del nostro Appennino sembrerebbero mettere tutto in discussione.
Parlando del Lago Scaffaiolo dice che: "… rimane serrato da una pendice di Monte Folgorino a Tramontana [cioè a nord] ed a Ponente, dalle due alte cime dette i Monti di Scaffiolo a Levante, e dall'alta cima del Monte Spigolino a Mezzodì".
A nord dello Scaffaiolo c'è l'attuale Spigolino, mentre a sud c'è il Cupolino, che Calindri chiama Spigolino e che in una carta del XVII secolo è detto appunto Borachino.
Che dire? Proprio sotto al Cupolino c'è uno dei luoghi più misteriosi del Belvedere, il Lago Scaffaiolo, di cui parlò anche Boccaccio nella sua descrizione dell'Italia "Scaphagiolus modicus lacus est in Apeninum".
Un minuscolo specchio d'acqua perenne, privo di immissari e di emissari, placidamente adagiato lungo il crinale che separa il Tirreno dalla pianura Padana, fra le cui particolarità, con i suoi 1750 metri di quota, c'è anche quella di essere il bacino naturale più alto dell'intera catena dell'Appennino.
Una serie di caratteristiche davvero uniche che hanno fatto nascere attorno a questo luogo un alone di mistero e di leggenda.
Si racconta che il fondo del lago sia comunicante direttamente con l'inferno e che le anime dei dannati usino risalire fin sopra le sue acque per cercare sollievo dalle pene eterne.
Per questo motivo se una mano benedetta ha l'ardire di gettare una pietra nel lago, proprio in quel punto dove il fondo dell'invaso si apre sull'inferno, improvvisamente si scatenano terribili bufere capaci di sollevar onde spaventose e di lanciare sassi a grande distanza.
La spiegazione dell'origine di questa leggenda, riportata anche dal Boccaccio in una sua opera edita nel 1598, è abbastanza semplice e legata ai repentini cambiamenti di tempo che caratterizzano la zona.
Tempeste improvvise, in grado di sollevare pietruzze come racconta la leggenda, e di trasformare questo luogo incantato in un vero inferno.
Questo lago ha attirato l'attenzione anche di Lazzaro Spallanzani, il famoso scienziato reggiano che lo esaminò accuratamente remando sulle sue acque con una piccola barca, nell'intento anche di sfatare le leggende degli abitanti del luogo, secondo le quali non si doveva in alcun modo turbare la calma di questo placido specchio d'acqua, pena il destarsi di tremende tempeste.
Beh, certo, Spallanzani visse in pieno Illuminismo, quindi un certo scetticismo ci sta… In ogni caso, non sarebbe male se effettivamente qualche tempesta si scatenasse, quando alcuni viandanti incivili gettano bottiglie e sassi nel piccolo lago, sguazzandoci dentro come se fosse una piscina personale.
Quanto al toponimo, ho detto sopra che scaffa significa riparo, ma certo qui di ripari rocciosi non ce ne sono, perciò non saprei.
Ai bordi del lago sorge il rifugio Duca degli Abruzzi, primo di tutto l'arco appenninico, fu costruito nel 1878 per volontà delle sezioni Cai di Firenze e di Bologna.
Ma che il crinale del Corno alle Scale fosse un luogo difficile soprattutto per la resistenza di un edificio lo capirono ben presto anche i volonterosi soci del Cai che furono costretti ad intervenire più volte nel corso degli anni.
Non solo, oltre ai problemi legati al clima il rifugio fu soggetto anche a diversi atti vandalici che ne minarono a più riprese la durata.
Così nel 1902 per iniziativa del comune di Cutigliano fu costruito un secondo rifugio che durò pochi anni tanto da costringere nel 1911 il Cai di Bologna ad intervenire di nuovo.
Il terzo rifugio fu inaugurato il 29 agosto 1926, questa volta affidato ad un custode riuscì a resistere fino al 3 novembre 1943 quando una pattuglia di militari tedeschi lo incendiò.
Negli anni Sessanta sorse il prefabbricato di lamiera gialla che è durato oltre quarant'anni fino alla costruzione dell'attuale edificio in pietra inaugurato il 30 settembre 2001.
Tutta la vasta area sotto lo Scaffaiolo è detta Baggiolédo, luogo dei mirtilli, in dialetto "bàggioli", che qui costituiscono vaste praterie.
Esisteva un cartello che lo chiamava Maggiolédo, un errore di stampa che non vuol dire niente.
Scendendo ancora arriviamo alle Malghe, rifugio con ovile annesso che in estate ospita un gregge di pecore.
In alto, sulla destra, si trova il rifugio Le Rocce, mentre proseguendo verso il basso di arriva alla Polla, luogo conosciuto anche come Tavola del Cardinale, così detto perché pare che qui si fermasse a pranzare il cardinale Capponi, legato di Bologna dal 1614 al 1621, nel corso di una ricognizione ai confini del Belvedere nel 1617.
Scendendo ancora troviamo l'ampia area di Val di Gorgo, dove l'acqua scorre tortuosa, l'acqua di vari torrenti tra i quali Rio Piastroso, nome che non ha bisogno di spiegazioni, e il Gorghìno, che origina una vallecola tutta sua detta Val di Gorghìno, già presente anche in Calindri.
I vecchi che andavano lassù a tagliare la legna e a fare il carbone dicevano però "Val d'Górdo", che non saprei a che cosa ricondurre.
Lì nei pressi, a destra di Val di Gorgo, c'è il Piano di Pattàno, una piccola area pianeggiante dove forse si raccoglieva acqua e formava un pantano, benché potrebbe anche derivare da "pàteo", che significa "sto aperto, disteso".
Il crinale dei Monti della Riva, che Calindri chiama Le Serre, ha origine dal monte Spigolino; scendendo verso Rocca Corneta si trovano il Cinghio Sermidano, per il quale non so che cosa pensare; Passo del Lupo, di significato chiaro; Passo della Riva; la Serra dei Baichétti, uno spettacolare canyon appenninico poco conosciuto di cui Calindri dice che si trova "sopra la Dardagna in sito detto Le Rive".
I Baichétti si trovano anche citati come Balchétto, Balchétti, Palchétti, comunque con nomi che ricordano qualcosa che sporge, un palco, anche se veramente la morfologia del posto non farebbe pensare a nulla di tutto ciò.
Poi Le Piagge, ne abbiamo trovate tante un po' in tutto il nostro territorio; il Cinghio del Burè, che mi ricorda la "natural burella" di Dante, anche se proprio non si tratta di un oscuro e stretto budello, ma potrebbe anche derivare da "burus", col significato di scuro, o anche bruciaticcio; il Passo dei Ronchi, anche questo un toponimo noto; Monte Mancinello; il Lago Pratignano, che però nella parlata locale diventa spesso Pratignana, al femminile.
Purtroppo attualmente è in gran parte interrato, ma ospita ancora alcune rarità florofaunistiche come la Rana Temporaria e la Drosera Rotundifolia.
Come molti laghi appenninici e in genere in quota, anche il Pratignano ha visto fiorire varie leggende, relative soprattutto ad esseri fatati che abiterebbero le sue acque e le sue sponde.
Poi Serrasiccia, Cappelbuso, La Cornia (dove forse c'era una pianta di corniòlo a quota piuttosto alta, perciò una rarità), Monte Lavacchia, Campovecchio e Campiano, di cui ho detto parlando di Farne' e di Rocca Corneta.
Monte Lavacchia è un toponimo che mi ricorda il lavare, ma lì di acqua non ce n'è… Forse è una corruzione di "la macchia", cioè il bosco più o meno fitto? Andrebbe meglio.
Il Dardagna mostra il suo lato più spettacolare alle Sette Cascate, sette salti d'acqua rombante che si trovano tra il Cavone e Madonna dell'Acero.
Prima di accennare al santuario, vediamo che cosa c'è nei dintorni: Case Pasquali, così dette dopo che la famiglia Pasquali, proveniente dal modenese, si stabilì qui verso la fine dell'800.
Più anticamente erano dette Possessione, cioè possedimento del santuario, con campi coltivati da coloni.
Tra il santuario e le Case Pasquali scorre il Rio dell'Acero, o della Madonna.
Più sopra ci sono le moderne Tre Fontane e più sopra ancora, sulla strada che sale al Cavone, la Fontana d'Varisto, realizzata da Evaristo Roda delle Borèlle nel dopoguerra intercettando una piccola sorgente.
La fontana, ora asciutta, serviva a dissetare le donne e le ragazze che a quei tempi erano "alle piantine", cioè piantavano piccole piante di abete rosso e Douglas, ritenute utili per l'edilizia, che ancor oggi si vedono.
Salendo all'Acero c'è l'ampia abetaia dei Borghetti, anche se non ci sono case, intercettata in alcuni punti dall'antica via devozionale dell'Acerone, che parte da Ca'di Berna.
Questa strada è molto bella, in alcuni punti conserva il lastricato originario del XVII secolo, con alcune iscrizioni di nomi di pellegrini in devota salita al santuario.
Il santuario di Madonna dell'Acero sorse agli inizi del XVI secolo sul luogo dell'apparizione della Vergine a due pastorelli, che si erano riparati sotto un grande acero nel corso di un'improvvisa bufera di neve.
Il luogo dell'apparizione si chiamava Pian di Zufardo, toponimo oggi perduto riconducibile forse a un nome proprio, per quanto non troppo diffuso.
Dalla fondazione del santuario il luogo fu più noto come Vergine de l'Asaro, Vergine dell'Alpi, Madonna dell'Asero, Madonna della Vergine, luogo comunque molto noto ai pellegrini che il 5 agosto, anniversario dell'apparizione, ancor oggi arrivano numerosi.
Un tempo molti erano coloro che, affrontando le montagne a piedi, giungevano da Cutigliano, Lizzano Tosco, Fanano, dimostrando una tenacia e una devozione che oggi forse abbiamo perduto.

 

 

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