La Pro Loco Pianaccio Mostre Eventi Cosa Fare Gallery Enzo Biagi


ProLoco Pianaccio

PRO LOCO PIANACCIO

Curiosita'

CHIESINA - FARNE'
Dal giunco alla bevuta

di Alessandra Biagi

Vallata Est del Corno alle Scale
Laghetto del Dardagna

Luogo antichissimo in cui sopravvivono molti elementi comprovanti l'origine celto-ligure dei Belvederiani, soprattutto della Val Dardagna. Il nome stesso del fiume è antichissimo, risalendo ad una radice indoeuropea databile ad oltre 15 mila anni fa, col significato di "acqua rombante". Il nome del paese invece è un fitonimo latino da farnetum, "luogo ricco di farnia", una varietà di quercia che qui poteva attecchire data la quota non troppo elevata. Due sono gli elementi caratteristici della Val Dardagna: Uno è quello dei camini rotondi, che si trovano soltanto qui, sormontati da una pietra conica che può anche essere lavorata;
L'altro è costituito dalle "mummie", così definite con un termine piuttosto moderno, non essendo noto quello antico. Si tratta di maschere o facce di pietra scolpite sulle facciate delle case, con valenza beneaugurante. La densità delle "mummie" in questa zona, che confina con il territorio modenese in cui anticamente si trovavano i Liguri Friniati, poi assimilati dai Celti, e che è molto ricco di questi volti di pietra, fa pensare ad un'influenza diretta di questa tradizione, che recenti studi fanno risalire appunto ad epoca celtica.
Dispersi ai piedi dei Monti della Riva i borghi di Farnè e della vicina Chiesina, unite dalla superficialità del nostro linguaggio in un unico toponimo, potrebbero sembrare all'apparenza l'immagine dell'impermeabilità tipica della montagna verso tutto ciò che è nuovo e diverso. Un luogo dove non ti aspetteresti mai che all'inizio del Novecento, mentre in tante grandi città italiane non si sapeva ancora nulla del significato di parole come uguaglianza o socialismo, proprio quassù nasceva quella che Galileo Roda, con un'intuizione a dir poco straordinaria, ha definito la "Repubblica rossa del Dardagna". L'embrione di una società di persone libere e uguali, che visse una stagione brevissima, svanita nel giro di pochi mesi, che ha lasciato negli abitanti di questi luoghi un senso di fiera autodeterminazione difficilmente riscontrabile altrove. Le motivazioni di ciò sono spiegate nella relazione inviata il 10 ottobre 1920 dal sottoprefetto di Vergato al Ministero dell'Interno, stupito e preoccupato di ciò che stava accadendo in quelle sconosciute valli dell'Appennino: "...durante il periodo prebellico gli abitanti erano soliti emigrare temporaneamente all'estero in larga scala. Finita la guerra tale corrente migratoria è in gran parte cessate e molti di loro, al rientro al paesi d'origine, hanno portato con se e diffuso le nuove idee socialiste".
Certo, la mancanza di lavoro, la povertà, le malattie endemiche che falcidiavano gran parte dei neonati e le difficoltà di ogni tipo contro le quali dovevano quotidianamente lottate gli abitanti di questi luoghi, rappresentavano un terreno fertile per le idee importate dagli emigranti, ma una tale facilità di radicamento in un'area così ristretta e lontana dal mondo, indica forse qualcosa di più profondo che meriterebbe di essere indagato con maggiore attenzione. Ma forse c'è qualcosa di più e di più antico, da collegare alla probabile discendenza "nordica" di queste genti, nei fatti così distante dal carattere conciliante degli emiliani.
Un'origine confermata dalle tante memorie celtiche presenti come l'usanza di mettere fuori delle abitazioni quei volti di pietra che tanto ricordano da vicino l'Irlanda, o il passaggio nel 1529 dei lanzichenecchi, uomini dalla statura enorme e di grande fierezza, che devono avere lasciato qualcosa di loro nei geni della popolazione locale a tal punto da fare scrivere nel 1781 all'abate Serafino Calindri:
"E' un problema da sciogliere se una volta questo popolo fosse di statura gigantesca, ovvero vi nascessero tra esso ad ogni tratto dei mostruosi giganti". Gente fiera e determinata nei loro principi e nelle loro tradizioni come dimostra anche la storia e le caratteristiche della chiesa che sorge a poca distanza da Farnè in un luogo che da allora prese il nome di Chiesina.
Chiesina: La chiesa di Santa Maria del Carmine della Chiesina si trova a poca distanza dal borgo di Farne'. Essa sorse nel 1662 come sussidiale della chiesa parrocchiale di Rocca Corneta, distante circa 4 chilometri che durante l'inverno potevano diventare molto difficili da percorrere, a causa dell'ingrossamento delle acque del Dardagna e dei suoi affluenti, oltre che per le copiose nevicate. In origine la sussidiale serviva un territorio abitato da oltre 1300 persone; dagli anni '50 del Novecento, poco dopo l'erezione a parrocchia compiuta dal cardinale Nasalli Rocca nel 1950, La Chiesina non ha più un parroco residente a causa della scarsità di popolazione. L'edificio sacro sorse in un luogo in cui non c'erano case, perciò facilmente diede il nome alla località, che divenne perciò La Chiesina, con felice tautologia.
Fu fatta costruire da un uomo del luogo, un ricco pastore di nome Pier Giuseppe Fiocchi, che donò il terreno su cui sorse la chiesa, pagò tutte le spese della costruzione e degli arredi interni, oltre a dotare il cappellano di una notevole prebenda; più tardi il sostentamento del cappellano fu assicurato da una rendita di 200 lire annue, in parte versate dalla comunità e in parte derivanti dai frutti di beni comunali a ciò appositamente destinati. Fin da subito il giuspatronato fu della famiglia Barzini, che lo mantenne fino alla fine del XIX secolo. La chiesa è a tetto a capanna, con cappella maggiore in volta, ed è dotata di tre altari: il maggiore dedicato alla Madonna del Carmine, patrona anche dell'unica Compagnia eretta presso la sussidiale, quello del Crocifisso e quello dei Santi Pietro ed Eustachio.
Se è facilmente spiegabile la dedicazione di almeno un altare a Pietro, Santo eponimo del donatore della chiesa, più difficile è stabilire la motivazione della presenza di sant'Eustachio, che certamente non è un Santo di comune venerazione in questa zona. Nella pala della Vergine del Carmine, Ella è raffigurata mentre porge lo scapolare a san Simone Stock: la festa liturgica fu istituita, infatti, per commemorare l'apparizione del 16 luglio 1251 a san Simone Stock, all'epoca priore generale dell'ordine carmelitano, durante la quale la Madonna gli consegnò uno scapolare, dal latino scapula, spalla, in tessuto, rivelandogli notevoli privilegi connessi al suo culto.
Proprio a san Simone Stock, che propagò la devozione della Madonna del Carmelo e compose per Lei un bellissimo inno, il "Flos Carmeli", la Madonna assicurò che quanti si fossero spenti indossando lo scapolare sarebbero stati liberati dalle pene del Purgatorio. La Madonna del Carmine è spesso raffigurata in opere del periodo delle pestilenze, in particolare dell'inizio del XVII secolo. Poiché però qui l'ambito cronologico è più tardo e in questo periodo non c'erano pestilenze, si può presumere che il culto per la Madonna del Carmine sia giunto alla Chiesina tramite i pastori che praticavano la transumanza, una delle mete era Crevalcore, nella pianura bolognese, dove da secoli è venerata la Vergine del Carmine.
Vari lavori furono compiuti nel corso del XVIII secolo, tra cui la costruzione della sacrestia nel 1704, che conserva una bellissima credenza in legno di noce databile al XVIII secolo, recentemente restaurata, e della canonica, iniziata nel 1754 e unita alla chiesa nel 1804, come testimonia la data scolpita sulla chiave di volta del portico che unisce i due edifici. Anche il pavimento a lastre di pietra risale alla fine del XVIII secolo. Sulla sinistra è visibile il fonte battesimale in legno intagliato e dipinto di azzurro, opera di Giuseppe Taglioli detto "E Tatto", che prestò opera di sacrestano per molti anni tra fine Ottocento e gli anni '40 del Novecento. L'ancona in legno intagliato e dorato che ospita la pala dell'altare maggiore, opera di ambito emiliano dell'inizio del XVIII secolo, è stata recentemente restaurata.
In origine fu dotata di un sepolcro al centro della navata, che però, a quanto è noto, non fu mai utilizzato. Ma la stranezza è che accanto ai consueti tre pozzi funerari cumulativi distinti per uomini, donne e fanciulli, a Chiesina ne esisteva un quarto destinato alla sepoltura degli acattolici. Un fatto singolare, senza uguali, se pensiamo che nel 1600 l'unica religione conosciuta e praticata in zona era proprio quella cattolica, ma soprattutto un particolare che avvalora l'ipotesi della presenza di un gruppo di discendenti dei Lanzichenecchi che, ricordiamo, erano ferventi Luterani e, in quanto tali, non avrebbero potuto essere sepolti assieme ai cattolici. Un fatto testimoniato anche dal ricordo di molti abitanti della zona che raccontano del ritrovamento durante i lavori di trasferimento del cimitero di ossa enormi, di tibie lunghissime e di crani dalla circonferenza smisurata, appunto dei resti di quegli "uomini dalla statura gigantesca" di cui ebbe a scrivere circa un secolo dopo l'abate Serafino Calindri.
Il paese non aveva un camposanto, ma all'esterno, verso ovest, si trovava un cimitero composto da quattro distinte fosse, destinate a contenere le salme rispettivamente degli uomini, delle donne, dei bambini e dei cosiddetti "anabattisti", cioè persone non battezzate, dirette discendenti dei Lanzichenecchi fondatori di Ca'di Lanzi. Il sepolcreto ha restituito resti umani di inusitata grandezza, teschi, femori, vertebre, appartenenti a un tipo fisico non locale ma bensì attribuibili a popolazioni nordiche. Un tempo era segnalato da un piccolo pilastro che sosteneva una banderuola di ferro battuto a forma di gallo, simbolo di resurrezione; attualmente, per motivi di sicurezza e di decoro, il luogo è stato reso non più riconoscibile, ma fino a circa trenta anni fa era invalsa la consuetudine, nel giorno della commemorazione dei Defunti, di benedire prima questo luogo poi il cimitero vero e proprio, costruito ai primi del Novecento nei pressi della chiesa, sull'antica strada che conduce a Rocca Corneta.
Il campanile a base quadrata fu aggiunto nel 1730, come si legge su una piccola lastra di pietra visibile sul lato est, e presenta una particolarità architettonica: due visi di pietra scolpiti in cantonali, posti in alto sulla cella campanaria, una sul lato est, l'altra sul lato nord. Nella parlata locale vengono definite "mummie", pur non avendo nulla a che fare con l'Egitto. Si tratta di una consuetudine di origine antichissima, forse pre-celtica, secondo la quale queste teste di pietra avrebbero funzione apotropaica: si tratterebbe di guardiani degli edifici, e il fatto che si trovino su una costruzione avente una destinazione religiosa così evidente è un elemento assai inconsueto. Quella sul lato est presenta un viso rotondo con gote rigonfie, l'altra un viso distorto in un grido con la bocca aperta.
A margine del prato di fronte alla chiesa si trova un tabernacolo con immagine della Vergine: tali strutture nel Belvedere vengono dette "maestà", e questa della Chiesina, eretta con funzione di protezione del castagneto che si trovava qui, è datata al 1735. Il borgo di Farnè conserva ancora intatti i caratteri tipici dell'architettura tradizionale che avevano nella pietra il materiale dominante. Una presenza forte, che segna il paesaggio e quasi lo domina con il suo colore ferrigno tipico della pietra locale e dona al paese un aspetto davvero unico. Ma la vera ricchezza della zona è la presenta di tanti minuscoli borghi che punteggiano la vallata: un miracolo di caparbietà che portò gli antichi abitanti ad insediarsi in luoghi all'apparenza impossibili da vivere.
Ca' Lanzi: Il minuscolo borgo di arrampicato lungo i balzi della Riva ancora oggi raggiungibile solo a piedi e quasi completamente diroccato, a proposito del quale si racconta che fu proprio qui che, intorno al 1530, dopo la battaglia di Gavinana, si fermarono alcuni Lanzichenecchi stanchi di combattere in giro per tutta Europa, dai quali deriverebbe il nome stesso del borgo. Ricordiamo che durante la permanenza di Carlo V a Bologna il Papa chiese al Re l'invio di un nuovo contingente di truppe per stroncare la resistenza dei fiorentini decisi a non riaccogliere più i Medici. L'Imperatore mandò truppe imperiali e spagnole al comando del principe d'Orange delle quali faceva parte anche un contingente composto da 7.000 Lanzichenecchi, soldati mercenari abilissimi nel combattimento caratterizzati da una statura enorme che li rendeva ancora più spaventosi. L'assedio di Firenze durò dieci mesi, 1529-30, e finì con la capitolazione della città dopo la sconfitta patita dalle truppe fiorentine guidate da Francesco Ferrucci a Gavivana, località dell'Appennino pistoiese che si trova ad un tiro di schioppo dalla valle del Dardagna.
Proprio lungo questa valle saliva una delle strade di collegamento con la Toscana da dove transitarono probabilmente quella che lo storico fiorentino Benedetto Varchi descrisse come: "… una banda di Lanzi di riserva, seguita da altri Lanzi, dai colonnelli italici ed altri, che riaccese la battaglia che divenne tragica per gli uomini di Firenze". Capitolata Firenze i Lanzi furono licenziati e fatti rimpatriare, ma non tutti probabilmente tornarono nella loro terra d'origine ed alcuni potrebbero essere rimasti nel territorio dove avevano combattuto, sostato o transitato, dando vita a quella stirpe di uomini giganti di cui abbiamo già parlato. Fra gli altri borghi meritano una visita Ca' Julio con case- torri databili al XV secolo, un portale con chiave di volta finemente scolpita ed un piccolo oratorio dedicato a San Giuseppe.
Qui sorgeva anche l'abitazione dell'illustre botanico Rodolfo Farneti. Oltrepassato il Dardagna ci troviamo di fronte ai Pianacci, risalente al XVI secolo come appare in alcune date incise su architravi mentre addentrandoci verso la Riva si trovano i due borghi di Ca' Poli e di Ca' Miglianti (XVII secolo). Scendendo da Farne', sulla sinistra, si trova un'altra maestà, ricavata da un unico masso di arenaria: nella base della nicchia che ospitava l'immagine sacra (da tempo trafugata) è stata ricavata una sfera di pietra che raffigura un seno, detto "mamma", con evidente valenza propiziatoria. Casa Tonielli (XVI secolo); Casa Vighi (XVII secolo) Le Borèlle, dove si trova uno dei migliori esempi d'architettura montanara, la cosiddetta Ca' del Guercio, datata al 1764 e che prende nome da una "mummia" un po' storta posta sulla porta d'ingresso.
Le più antiche famiglie di Farne', presenti nei libri canonici almeno dal '500, sono i Farneti, i Lanzi, i Tonielli e i Taglioli, provenienti da Rocca Corneta. Toponomastica Un tempo tutta la zona di Farne' e della Chiesina era di pertinenza della parrocchia di Rocca Corneta e più su ancora, fino all'Alpe di Rocca Corneta (attuale conca che comprende lo Strofinatoio e il Sasseto); qui prenderò in considerazione però solo l'area tra La Ca' e Farne'. Come per i borghi sotto alla Ca', anche in questa zona abbiamo piccoli nuclei abitati la cui nascita è databile al XVII secolo circa, nuclei che prendono il nome da quello del capostipite della famiglia che lì pose la sua residenza: Ca' dî Poli, "casa di quelli di Paolo"; Ca' dî Miglianti, "casa di quelli di Migliante", cioè Emilio in dialetto; Ca' dî Vighi, "casa di quelli di Ludovico", Vigo in dialetto. Proprio sotto da Ca' dî Miglianti, sul Dardagna, si trova Molin del Tosco, così detto dal nome del proprietario, un toscano di nome Micheluccini proveniente dalla Garfagnana.
Secondo le cronache dell'epoca era a capo di un gruppo di banditi composto da circa ottanta elementi che, come quello del famoso Guerrazzi, agiva nella seconda metà dell'Ottocento più per intenti politici che banditeschi in senso stretto. L'erta costa che sovrasta Ca' dî Miglianti è detta Canala di Serrasiccia (che nella parlata locale spesso diventa Sarasiccia) come il piccolo insediamento oggi in rovina che si trova sopra: poiché il luogo è ben esposto, è giustificato pensare a una "serra (luogo elevato) arsa", secca, che troviamo citata con lo stesso nome già in documenti del XVI secolo. L'area attualmente quasi tutta boscosa tra Ca' dî Miglianti e Ca' dî Vighi è detta Camp'ed Francia, forse dalla provenienza del proprietario originario o, per tradizione, dalla presenza di un accampamento di soldati francesi in epoca napoleonica. Procedendo verso est, troviamo Le Borèlle, dove forse si raccoglieva acqua, e Monticristi, "del monte di Cristo".
Questa località non pare avere caratteristiche particolarmente "religiose", se non quella di essere posta su un'antica strada (di cui restano notevoli tracce di basolato originario) che conduceva verso La Ca' e più oltre verso Madonna dell'Acero. Sembra più probabile che il nome faccia riferimento alla presenza di una maestà o cappella di cui però non esiste più traccia da tempo. Poco oltre abbiamo Ca' Filippelli, "casa di Filippello", che nella parlata locale diventa I Flupèe, secondo alcuni fitonimo per "I pioppeti".
Più sotto si trova Lag'Buro, una piccola conca in cui si raccoglieva acqua in occasione di piogge abbondanti. L'aggettivo "buro" (buio, scuro) fa riferimento, forse, al denso bosco che circonda questa zona. Siamo in prossimità di Farne': poco sopra la frana sulla strada, c'è un campo detto Gabàn, "giacca" in dialetto: ma, d'altra parte, potrebbe anche derivare dal celtico cabàn, "capanna", che avrebbe decisamente più senso di una giacca. Ancora, potrebbe derivare (come Gabba) dal latino "cavea", gabbia per animali.
Poco prima di giungere in paese, dove la strada diventa oscura per la presenza di un folto bosco, si trovano Gli Abédi, "gli abeti". Per ciò che riguarda il nome Farne', evidente troncamento di "farneto", potrebbe derivare da "farnea" (da "farnus", frassino) e dal fitonimo -etum, quindi potrebbe essere "il luogo dei frassini" e non della farnia, quercia che cresce a quote più basse. In Farne' si trova La Tórra, torre, che è quell'alto edificio dietro la piazzetta del paese. Questo nome, come altri che vedremo, fa riferimento al confine con Modena che corre sul crinale della Riva.
Presso l'abitato ci sono due piccoli campi, I Laghi, in cui si ferma l'acqua piovana, e E' Frabétto, voce dialettale per fabbro; può darsi che un tempo, con tutti gli armati che giravano da queste parti, vi fosse qui una fucina. Lungo la strada che scende verso Sassdèllo, "luogo sassoso", sulla sinistra troviamo Camp'Lungo, evidente riferimento alla forma dell'appezzamento, oggi quasi completamente coperto dalla boscaglia, e più sotto Camp'Rosìn, un poetico "campo rosa".
Sulla strada verso La Chiesina troviamo poi La Casetta in cui il proprietario, molto religioso, aveva posto agli inizi del Novecento diverse immagini sacre ancora visibili; La Ca' Bura, che tanto buia non è; La Tapètta: forse vi abitava una donna di bassa statura? Mah, è possibile invece che derivi dal francese "étape", "magazzino di viveri destinato alle truppe che passano, ed estensivamente, luogo ove le truppe in marcia si fermano per passare la notte e si riforniscono".
Dato che c'erano le truppe napoleoniche, quest'ipotesi potrebbe anche starci. Più sopra, sulla strada che porta a Ca' dî Miglianti, c'è La Serra de' Tatto (Giuseppe Taglioli), pittoresco personaggio vissuto tra '800 e '900: la bella maestà che qui si vede è stata eretta da lui dopo aver visto, si dice, il fantasma della madre che lo invitava a cambiare la sua vita dissoluta.
Nella tradizione locale è rimasto un posto infestato dagli spiriti, dove "es ghe védde, es ghe sente". Il grande prato che si trova sopra al cimitero della Chiesina è detto Pianlàccio, luogo pianeggiante. Lungo l'antica strada che da qui passa e conduce a Rocca Corneta, si trova La Capanna, piccolo edificio di cui sono visibili i resti, destinato a capanno per attrezzi e ricovero di fortuna. Sopra, lungo la strada che ritorna a Farne', abbiamo I Giuggi, curioso toponimo forse riferibile a giuggiole o altri piccoli frutti dolci. Continuando verso la Rocca, nei pressi del ponte su Rio Bardini, c'è Fortùnnio, un piccolo prato dal nome bizzarro che mi fa venire in mente qualche antica divinità italica, ma più probabilmente è riferito al nome del proprietario, Fortunato, o alla posizione ritenuta favorevole. La piccola costa subito di fronte è detta I Marughìcci, dall'abbondante presenza di marùgo, nome dialettale della marruca. Ca' dî Bardìn, italianizzato in Bardini, è anch'esso dovuto al nome del proprietario, Bernardino: a me piace pensare però che qui risiedesse un bardo (magari non molto alto), poeta-cantore che celebrava le imprese di capi illustri; non voglio pensare che si riferisca all'aggettivo "bardo" con significato di sciocco, balordo.
Potrebbe anche essere che il toponimo sia nato dalla storpiatura (intenzionale o meno) del cognome Barzini, molto nota in zona e un tempo tra le più facoltose e importanti. Poco sotto c'è Camp'ed Bursìn, forse una persona un po' noiosa, e oltre, verso Il Castello (situato in posizione elevata che giustifica in parte il toponimo), una serie di appezzamenti di terreno tra i quali Baccajàn, citato nei rogiti Serantoni del 1564 e 1565, che significa "luogo ricco di bacche". Poi Camp'ed Gustìn, campo di Augustino o Agostino; La Striscia; Scopédo, luogo ricco di "scopa" (erica arborea), in cui si trovano i resti murari di un grande recinto di pietra ritenuto, a torto, un castelliere celto-ligure; E' Camp'd'aviazion, così detto perché termina bruscamente con un salto nel vuoto verso il Dardagna; La Vallóna; Ca' dî Crudée, "casa di quelli di Crudèllo", nome medievale di persona che la dice lunga sulle sue caratteristiche: ma qui in realtà c'è solo gentilezza.
Il fosso che divide dalla zona di pertinenza di Rocca Corneta si chiama La Martignana, che ricorda Il Martignano di Lizzano, un prediale, cioè podere del signor Martinus. Scendiamo poi a Pra' da Tétta: sarebbe forse intrigante pensare ad attributi femminili, ma il luogo non è collinoso, bensì concavo o leggermente pianeggiante: poiché è citato nei rogiti Serantoni del 1565 come "Predasetta", è più probabile l'ipotesi corrente di derivazione dal latino, con significato di "pietra tagliata". Saliamo sulla Riva, percorrendola da nord a sud: data l'abbondanza di boschi e castagneti, ora purtroppo incolti, troveremo diversi toponimi derivati da piante e altri originati dalle caratteristiche geomorfologiche dei luoghi. Dapprima si trova Camp' Vècctio, campo vecchio, con due casóni, E' casón ed Biràcctio e E' casón d'la Rosétta, due persone che risiedevano a Ca' di Vescovi ma avevano qui i loro possedimenti: nulla da dire riguardo a Rosetta, ma Biràcctio certo era un soprannome. Sotto Camp'Vècctio c'è E' Srétt' d'la Guardia ("serretto" significa punto elevato), di nuovo un toponimo riferito ala presenza di guardie, dogane, confini. Poco sopra c'è Camp'Ardóndo, campo rotondo: effettivamente questo bellissimo castagneto sembra quasi delimitato in cerchio dalle forre e dai balzi della Riva. Ancora oltre, sul crinale, c'è Mont'Lavàcctia, forse dal latino "labes" slavina, frana, e data la ripidità delle sue pendici questo nome si adatta perfettamente. Su Mont'Lavàcctia c'è il Casón d'Baldi, dal nome del proprietario, Ubaldo, e scendendo di poco c'è Pajarólo, uno spuntone roccioso dove non cresce altro che erba che rinsecchisce presto. Ancora sotto c'è E' casón de' Papa (chissà quale, fra i tanti), poi Il Berna, di significato oscuro, e più sotto Le Roncolétte, piccole sporgenze rocciose. Poi c'è Ri' d'Castagnè, il rio del castagneto.
Da Camp'Ardóndo scende verso Corte una bellissima strada lungo la quale si trovano località dal nome suggestivo: Pavére, che ricorda le farfalle; I Docción, una costa molto esposta dove l'acqua che nasce poco sopra scende intridendo il terreno e depositando materiale calcareo. La cosa particolare è che in qualunque stagione dell'anno quest'acqua ha una temperatura piuttosto alta (non ghiaccia mai) e sgorga nella medesima quantità. La Schiena dei Sassi ha un nome quanto mai appropriato, data l'abbondanza di pietre anche di enormi dimensioni che affiorano dal terreno. In queste rocce era stata ricavata una grande maestà che le testimonianze dicono "enorme, ci si stava in piedi dentro", con il soffitto a vòlta. Poiché si diceva che qui fosse nascosto un tesoro, molti andavano a scavare nei pressi determinando, col tempo e con l'azione congiunta degli agenti atmosferici, un movimento franoso che si portò via la maestà. Si dice che essa fu costruita dove morì "la sorda d'Camp'Ardóndo", ultima abitante di questo luogo. Si dice anche che Remigio Crudeli, detto Guerrazzi, avesse nascosto qui 40 scudi d'argento in un "pignattìno". Forse era questo il tesoro che tutti volevano trovare. Sempre scendendo c'è un castagneto detto Miclìn, Michelino.
Ciò mi ha fatto pensare ad un collegamento, certamente aleatorio ma suggestivo, con la Rocca di Michele, citata in un documento nonantolano del 1136 in relazione ai confini Modena-Bologna. Questa rocca si trovava sul crinale poco dopo Cappèlbuso ( "castel buco", cioè rovinato, caduto) ed entrambi sono citati in varie carte e documenti dei secoli XVII-XVIII, oltre che in una ricognizione cardinalizia dell'ottobre 1617. Era presente un notevole sistema difensivo, che prevedeva anche dei presidi con guardie in località diverse lungo il Dardagna e sulla Riva. A proposito di Riva, essa ha un nome ben pensato, dato che indica da circa 1500 anni il confine ("riva" significa "margine") con il territorio modenese. Sempre sul crinale troviamo Roncadón, forse dal toscano "ronco", col significato di divelto, scavato; o dal latino volgare "runcus", bernoccolo, sporgenza: entrambe le ipotesi si attagliano alla natura del luogo, piuttosto scosceso e accidentato. Un luogo per me molto suggestivo è Corte, dal nome curioso che ha fatto pensare a qualcuno a un collegamento di qualche tipo con i Longobardi; a me richiama invece un ampio cortile o comunque una zona pianeggiante, e in effetti è il primo posto un po' pari che si trova dopo la discesa dalla Riva. Lì nei pressi c'è Bacióncia, toponimo veramente singolare per il quale non so che cosa pensare: si può ipotizzare una derivazione dal raro aggettivo "bacìo", cioè luogo in cui non batte il sole, esposto a nord, ma ciò corrisponde solo in parte alla natura della zona. Tra Bacióncia e Ca' di Lanzi, risalendo la Canala d'Ca' di Lanzi, si trova E' Ponzàn e anche qui bisogna ammettere che è arduo formulare ipotesi; le possibilità sono due: o dal latino "punctare", nel senso di spingere, fare forza; o dal latino "puniceus", punico, per estensione "rosso, rosseggiante".
Mah… Su Ca' di Lanzi molto è stato detto: mi limiterò qui a ricordare che si tratta di un insediamento che, secondo l'interpretazione corrente, è stato fondato da un gruppo di Lanzichenecchi in fuga dopo il sacco di Roma del 1527. Più importante è notare che un edificio di Ca'di Lanzi era detto La Dogana dove, secondo tradizione, aveva sede la dogana proprio presso il confine con Modena. A fianco c'era un altro edificio con un grande portale ad arco dove entravano i cavalli e i muli. Intorno a Ca'di Lanzi è un fiorire di toponimi fantasiosi, tutti riferibili ad appezzamenti anche piccolissimi posti uno in seguito all'altro tra Ca'di Lanzi e La Possión, "il possedimento" per eccellenza, dove si trova quel grande edificio ancora visibile (anche da lontano) comprendente, oltre all'abitazione, stalla, fienile e casóne. Alle spalle della Possión scende La Canala d'Gracìn: anche qui è difficile stabilire un significato per questo nome, che fa pensare al gracidio delle rane o al latino volgare "iacile", giaciglio. Poi abbiamo La Carbonaia, E' Giùggio, El Busétto, riferito alle ridottissime dimensioni del podere; E'Buratto, che farebbe pensare al tessuto rado di crine di cui erano costituiti i setacci: forse qui si setacciava grano o altro. Un'ipotesi fiabesca è che qui si svolgessero giostre o tornei a cavallo, colpendo con la lancia una mezza figura girevole, il buràtto, come nella Giostra del Saracino… Ma meglio continuare su strade più realistiche. Lì vicino ci sono Le Borlétte, piccole bòrre, da riferire ad acqua che corre. Da qui saliamo verso Cappèlbuso, Castel Buco, cioè castello diroccato. Pare che questo piccolo fortilizio facesse parte di un sistema difensivo più ampio che comprendeva anche la Rocca di Michele, di cui ho già parlato, oltre ai fortilizi di Rocca Corneta, Monteacuto e Monte Belvedere. Nella salita verso Cappèlbuso si trova Ca' di Giorgi, da tempo diruta; poi Il Casoncello, L'Arvìna (la frana), Mont'Lavàcchia, Il Pianlàccio (come il campo presso Chiesina di cui si è parlato), proprio sotto Cappèlbuso. Scendiamo attraverso La Còrnia, cioè l'albero del corniòlo o còrnio; il femminile è uso normale per i nomi di pianta nel nostro dialetto, come lo era in latino. Poi La Pianella, E'Zinevràijo, un ginepraio da cui si esce a fatica; Panperso, dove la tradizione popolare dice che un gruppo di viandanti perse il pane, che ruzzolò fino in Dardagna data la forte pendenza del terreno, e perciò rimasero senza mangiare; I Castagnóo, giovani castagni; Camp'dal Cilé∫e, per la presenza di molte piante di ciliegio selvatico presso il sentiero; poi c'è Gagliàsso, bellissimo nome che sembra la deformazione dialettale di Galeazzo, un nome antico che può coincidere con l'antichità di questi luoghi. Più sotto c'è La Bótta, la bótte, per la presenza di una sorgente d'acqua freddissima che giunge alla Fiorìnna, toponimo floreale forse dal nome proprio Fiorina o Fiora, piuttosto comune nel XV-XVI secolo. Tra Gagliàsso e La Bótta c'era un grande "scafóne" (riparo sottoroccia) che è servito da rifugio durante la Seconda Guerra Mondiale.
E'Rigón di Bóron è quella costa che scende a fianco del Balzo d'Mezdì, così detto perché a mezzogiorno la luce del sole si incunea in una grande spaccatura nella roccia a forma di finestra, detta E' F'nestrón de' Balzo, che da Farne' consente di stabilire quando è mezzogiorno. Poiché tutto questo costone è esposto a sud, è più probabile che il toponimo derivi dalla posizione a meridione e che in seguito si sia notato il fenomeno orario. Poco sopra si trovano Le Piagge, sempre in riferimento all'esposizione a sud, poi E'Balz'ed la Ménga, secondo la tradizione popolare da mettere in relazione al suicidio in questo luogo di questa Menga (Domenica); poi c'è La Fagéda, la faggeta, e Ri' Burse', italianizzato in Rio Burseto, forse di significato analogo a bòrra, bòrre, luogo scosceso in cui scorre e si raccoglie acqua. Più oltre, verso Serasìccia, c'è Ca'Castéggno, casa del castagno, poi E'Fanto, il fante: c'è chi afferma che questo luogo deve il suo nome alla forma eretta dell'altura, fiera come un soldato, ma è più probabile che, di nuovo, siamo in presenza di toponimi militareschi connessi con il vicino confine. Percorriamo il sentiero che costeggia il Dardagna per giungere al borgo dei Pianacci, luogo pianeggiante, un borgo databile all'inizio del XVI secolo; poco sopra La Ca' di Pianacci c'è un luogo detto La Sguìlla, la scivolata, a causa del fondo del terreno, un galestro molto scivoloso che rende difficile il cammino in caso di pioggia.
Poco sotto c'è E'Marón, per la presenza di marroni, e poi E'Camp'd'la Sega, dove forse c'era una segheria, data l'abbondanza di legname. La casa più antica del borghetto della Ca' dei Pianacci è Ca'd'Zanón, casa di Giannone, datata 1636. Anche ai Pianacci c'è una casa detta La Torre come a Farne' e poco sopra ci sono Le Fontanine, verso Ca'di Lanzi. L'edificio più grande e più bello della Ca' dei Pianacci, datato al 1859, è detto La Palazzina, costruita da un pastore originario di Ca' di Poli, Domenico Poli, figlio di Marco. Si dice che questo Domenico possedesse un gregge di mille pecore, cosa che gli consentiva di avere un tenore di vita piuttosto elevato per l'epoca. Scendiamo verso il Dardagna per concludere il nostro itinerario e giungiamo a Ca'd'Julio, la casa di Giulio circondata da piccole particelle di terreno: La Piaggia, I Barchi, Pancetta, L'Archiòso, luogo chiuso dove da molto tempo si fanno gli orti, poi Chicago, un pezzo di America giunto qui con gli emigranti. Presso La Je∫ìnna, La Chiesina, si trova La Ca'di Fra', la casa dei frati, sede di un convento ora ridotta a un cumulo di macerie; di fronte, sulla costa della Riva sopra la centrale elettrica, ci sono I Gròtti, i dirupi, e tutta l'area boscosa tra la centrale e Ca' di Miglianti è detta Sant'Antóggno, per la presenza di una maestà (non più esistente) con l'immagine di Sant'Antonio. Vicino alla Chiesina c'è Ca'd'Buda, poco prima del cimitero: come per Budiàra, sopra Vidiciatico, l'ipotesi è una derivazione da "buda", giunco, di cui è ricca la zona perché vi si raccoglie acqua piovana. Nella parlata locale però spesso diventa "ca'd'bvuda", casa della bevuta, poiché questo edificio, almeno dal XVI secolo, era osteria con locanda sulla strada che portava a Madonna dell'Acero da Rocca Corneta.
Mi piace concludere con un brindisi ideale ai nostri antenati, che sapevano osservare l'ambiente che li circondava e creare nomi che sono giunti fino a noi testimoniando la loro fantasia.

                                                       


Newsletter

Iscriviti per rimanere sempre informato sugli eventi a Pianaccio!

Seguici...