Una incisione di B. Pinelli che raffigura un episodio di brigantaggio
Nel Belvedere si avevano casi di criminalità minore, in prevalenza rispetto a “grandi” questioni feudali come le lotte che opposero i Tanari di Gaggio (guelfi) ai Bentivoglio o ai Pepoli o ai Montecuccoli di Pavullo (ghibellini).
Se in epoca feudale le lotte erano per il predominio sociale e fiscale su un territorio, la microcriminalità era mirata invece al contrabbando, ai furti, all’abigeato, soprattutto in zone di confine come Rocca Corneta.
Il fatto stesso che il Senato bolognese decidesse nella seconda metà del XIV secolo di erigere ben tre fortilizi a difesa del Belvedere è significativo di un clima piuttosto teso, in particolare con la vicina Modena, in relazione soprattutto alla sconfitta patita da Bologna nella battaglia di Zappolino della fine del XIII secolo.
Può sembrare strano a dirsi, ma il banditismo in montagna e nelle aree rurali era, in alcuni casi, strettamente legato ai sacerdoti, soprattutto nei periodi di maggiore crisi nell’azione di controllo della Chiesa sul territorio. I sacerdoti erano spesso poveri, con magre rendite che integravano in qualche modo.
Non mancavano poi i personaggi paradossali come don Gherardo Tanari, pievano di Lizzano, che con il fratello Sebastiano diede vita a una faida sanguinosa tra la sua famiglia, guelfa, e quelle lizzanesi dei Filippi e dei Fioresi dal 1573 al 1585 per il predominio sul Belvedere, in un periodo in cui potere ecclesiastico e potere civile erano ancora strettamente collegati; un vero capobandito.
Nel ‘500 era il massaro di una comunità che doveva procedere alle denunce criminali, naturalmente rischiando la vendetta dei querelati o, in caso di omissione, gravi conseguenze pecuniarie e penali.
Le faide tra diverse famiglie furono all’origine del banditismo diffuso ed endemico nelle zone montane, per il possesso di pascoli e per lo sfruttamento dei boschi, così come per il controllo delle chiese e dei benefici ecclesiastici: le principali famiglie locali si passavano le pievi e le parrocchie rurali da zio a nipote, e ancora alla fine del XVI secolo anche di padre in figlio, giacché non mancavano casi di preti concubinari.
La famiglia Tanari fu al centro anche di vicende banditesche con la famiglia Franzaroli della parrocchia di Rocca (di tendenze ghibelline), in particolare con il parroco di Rocca don Bino Franzaroli, in alcuni episodi apparentemente irrilevanti come una lite tra ragazze, un furto di castagne o un furto di capre, quest’ultimo da mettere in relazione anche agli spostamenti di pastori nelle Maremme, dove spesso le faide famigliari continuavano e potevano anche giungere ad epiloghi tragici.
La Maremma costituiva frequentemente terra di rifugio per molti banditi capitali dello Stato pontificio e viceversa, dato che le popolazioni si muovevano frequentemente e senza difficoltà da uno stato all’altro, grazie anche all’assenza di collaborazione tra le polizie dei due stati.
Altro fenomeno di microcriminalità era costituito dai problemi che sorgevano al santuario dell’Acero in occasione della festa il 5 agosto, con una sorta di racket di banditi, fuorilegge e bravacci sulle manifestazioni religiose.
I furti, come per esempio quello di castagne sopra citato, con tanto di invasione del castagneto a suon di archibugiate nella parrocchia della Rocca (a Ri’ Burse’ sopra Farne’ il 24 ottobre 1583), spesso erano compiuti da appartenenti a famiglie entrate nella consuetudine del furto e della violenza anche per sopravvivere, dopo essere stati coinvolti nelle lotte banditesche.
Si trattava di veri e propri clan che si distinguevano anche dall’abito: per esempio i Tanari erano caratterizzati da un giubbone di tela bianca con grande collare crespo (elemento da gentiluomo) e calzoni e “scoponi” di rensa (tessuto di lino candido, di grana molto fine, detto anche tela di rensa, usato per biancheria di pregio e anche nelle prime pitture a olio su tela) rossa o verde.
Fenomeni di violenza sessuale, taglieggiamento ed estorsioni erano molto frequenti, come dimostrano gli atti dei processi del Torrone (tribunale) bolognese analizzati anni fa da Alfeo Giacomelli.
Tra essi vi sono testimonianze eloquenti, come questa resa da Biagio di Terrarossola riguardo ai banditi della famiglia Menzani di Sasso, che molto spesso passava a mangiare a casa sua nel 1574:
“Ma non ci potremo rimediare, che credo ci bisognerà andar con Dio [migrare], se non si piglia qualche provisione. Io ho sei mamolelle et non posso viver se non mi vo con Dio”. In un altro caso si parla di denaro: “Fa’ dunque che mi trovi 25 scudi et fa come ci torno che ci siano: se no o che t’ammazzo o che t’abbruscio la casa con tutta la famiglia”.
Dopo la metà del ‘500 era avvenuta la privatizzazione di gran parte dei beni comunali più facilmente coltivabili, anche se molti erano ancora indivisi, soprattutto prati e boschi.
I processi di colonizzazione portavano a crescenti scontri confinari, per esempio tra Belvedere e Capugnano per l’area di Serenna e Cioppeda, tra Capugnano e Granaglione per l’area di Pian dello Stellaio, tra Rocca Corneta e il Frignano per la Val di Gorgo; tra agricoltori e pastori, divenuti transumanti, c’era un crescente conflitto. Si cominciarono a stabilire aree protette dove era proibito il pascolo alle capre, con frequenti infrazioni che riacutizzavano i conflitti.
Anche l’eccessivo sfruttamento dei boschi (privi ormai delle originarie abetaie e ridotti a sole faggete), utilizzati per legname da costruzione, da ardere e anche per l’industria del ferro nelle ferriere granducali (Toscana) portava spesso a contrasti molto violenti, che il senato bolognese cercava in qualche modo di frenare con l’emanazione di leggi a protezione dei boschi e con la nascita della “milizia della contea” a Porretta, già operativa nelle repressioni del 1585 ma fissata definitivamente per ruoli solo nel 1589, nell’ambito di una forte operazione di pulizia voluta fortemente da papa Sisto V.
Agli inizi del ‘600 il comune di Belvedere fu definitivamente unificato sotto l’unico plebanato di san Mamante, composto da Lizzano (che aveva assorbito le comunità di Vidiciatico, Monteacuto, Sasso, Maenzano, autonome fino all’inizio del ‘400) e dalla Rocca.
Le tensioni tra le due comunità si verificavano in particolare per i privilegi di cui godeva Rocca, privilegi che le consentivano una notevole apertura verso il Granducato di Toscana (per esempio, si riforniva di sale alla salara pisana), verso la Lucchesia e verso il modenese. Inoltre Rocca rimaneva vassalla di Nonantola per i suoi vasti beni comunali, mentre l’influenza nonantolana su Lizzano si faceva sempre meno significativa.
Tra 1600 e 1601 si posero le basi della redazione dei Capitoli del Buongoverno della comunità; i Capitoli del Belvedere, approvati nel 1602, e posero in evidenza una comunità “confederale”, con un consiglio composto da 18 uomini delle comunità (Monteacuto, Lizzano, Grecchia, Sasso, Vidiciatico, Gabba e Maenzano), eletti tra gli uomini delle comunità, con massaro estratto ogni sei mesi. Si confermarono i privilegi belvederiani, come quello del sale.
Tra 1585 e 1610-20 si assiste ad una ripresa del potere comunitario popolare contro i condizionamenti nobiliari del XVI secolo, fatto evidenziato anche dall’abbandono della struttura famigliare a clan a favore di una famiglia nucleare, delineando perciò una società strutturalmente nuova; anche la Chiesa vede in parte mutata la sua struttura, con i parroci che non vengono più imposti dalle grandi famiglie ma sono nominati dalle comunità e sono in gran parte di origine locale.
Rappresentazione violenta di brigantaggio contro la moglie di un possidente
Una litografia di Fra Diavolo, il più noto brigante d'Italia
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